Sabato 21 giugno a Roma c’era chi ha scelto di schierarsi contro la guerra: migliaia di cittadine e cittadini, attiviste e associazioni si sono radunati per alzare la voce contro l’attacco a Palestina e Iran, il perdurare dell’aggressione all’Ucraina e delle politiche di riarmo e morte. Al culmine del percorso, intorno al Colosseo, si è svolta una potente pratica di die-in, con i corpi stesi a terra, simbolo della fragilità della vita e dello strazio umano causato dai conflitti.

“Non possiamo restare spettatori, è stata una delle dichiarazioni dal palco, abbiamo scelto di usare i nostri corpi per dire basta alla barbarie, all’attacco Usa all’Iran, a ogni escalation militare”. I die-in, ha spiegato un altro degli intervenuti, “sono un linguaggio nonviolento ma forte: il nostro corpo è la terra ferita, paghino le potenze”.

L’eco di questa scelta ha prodotto decine di presidi analoghi attorno a basi Nato e militari del Paese, e altri die-in in città come Milano, Bologna e Napoli. Non è un gesto nuovo: la pratica del die-in ha già fatto notizia in passato. A Washington nel 2003 centinaia di pacifisti si sdraiarono di fronte al Campidoglio per protestare contro l’invasione dell’Iraq. Nel 2019, a Londra, attiviste ambientaliste crearono un die-in davanti al Parlamento per stigmatizzare la crisi climatica.

L’attacco effettuato dagli Stati Uniti contro obiettivi in Iran ha acceso nuovamente il timore di una guerra su vasta scala. Il cessate il fuoco annunciato non ha retto nemmeno poche ore, con nuovi bombardamenti che hanno inflitto ulteriori perdite civili. Questo fallimento ha ribadito che le ragioni diplomatiche, se non sostenute da una volontà politica coesa, restano fragili.

Un’altra delle posizioni condivise durante il sit-in al Colosseo ha fatto emergere chiaramente che “questa è una guerra per procura. Vogliamo dire chiaramente che il popolo vuole pace, non bombe”. Se la comunità internazionale non riesce a imporre un vero cessate il fuoco, spetta alle persone attive e alle associazioni costruire la cultura della pace sul territorio.

Subito dopo la manifestazione, decine di presidi sono stati convocati di fronte a basi Nato e militari, o al centro di altrettante città con richieste precise: bloccare l’aumento della spesa militare e reindirizzare investimenti verso filiere civili e sostenibili. Si denuncia una tendenza pericolosa: l’inclusione del dual-use, tecnologie con applicazioni civili e militari, nelle politiche europee di investimento.

Secondo dati ufficiali, l’Unione europea ha destinato 16,4 miliardi di euro al Fondo europeo per la difesa (2021-2027), inclusi 8 miliardi per ricerca e sviluppo e 500 milioni per produzione di munizioni. Il piano “ReArm Europe”, avviato nel marzo 2025, potrebbe mobilitare fino a 800 miliardi di euro, compresi incentivi per investimenti privati e prestiti fino a 150 miliardi di euro, generando sinergie fra capitale pubblico e privato.

In Italia, secondo analisi indipendenti raccolte da Sbilanciamoci, piattaforma per una spesa pubblica equa e disarmata, la spesa per difesa nel 2025 sfiora i 31,3 miliardi di euro, con +7 % annuo rispetto al 2024; di questi, circa 13 miliardi sono destinati all’acquisto di sistemi d’arma. Nel 2023, l’occupazione nella difesa in Europa ha raggiunto 1.027.000 addetti, con un incremento dell’8 % rispetto al 2022. In Italia, i lavoratori nel comparto bellico sono circa 491mila, di cui circa 325mila direttamente coinvolti, e un +7 % atteso nel triennio prossimo.

L’espansione dell’occupazione nel settore militare rischia di costringere giovani e lavoratori ad una scelta tragica: restare a casa o operare per un’economia di guerra. Ma esiste una terza via: un’economia di pace. Investire in ricerca sanitaria, energie rinnovabili, edilizia sociale crea molti più posti, con impatti duraturi e benefici collettivi.

La consapevolezza che i piani europei puntino alla doppia anima civile–militare è fonte di profonda inquietudine e impongono una riflessione urgente. La scelta di donne e uomini che si sono stesi al suolo di fronte al Colosseo, e tre giorni dopo davanti al Parlamento e in decine di piazze, dimostra che un’altra strada è possibile. Una strada fondata sulla voce dei pacifisti, dei lavoratori, delle lavoratrici, delle associazioni.

Leggo sui social, ma anche su qualche quotidiano, che manifestazioni e proteste sarebbero troppo poco, strumenti spuntati, addirittura coperture per l’inazione. Io, se qualcuno organizza la rivoluzione, sono sicura di partecipare. Ma sono anche sicura che chi starà a casa a mugugnare o pontificare, e non sarà visibile, riconoscibile, chiaramente contro la guerra, sarà aggiunto, anche senza volerlo, alla contabilità mortale dei favorevoli perché rimarrà invisibile.

Il diritto alla pace vale più di ogni investimento militare. Oggi è il tempo di alzarsi, rifiutare la guerra e costruire insieme l’alternativa. Nessuna occasione è persa, nessuna possibilità è ignorabile.