
“Siamo noi che moriamo sempre di più dopo le vostre morti”, scriveva Guido Orlando, compagno storico di Peppino Impastato scomparso nel 2012, dopo il suo assassinio. Ed è innegabile il peso del vuoto che lasciano, quando compagni e compagne ci lasciano.
Lo scorso 19 agosto, giorno del mio compleanno, si è spento a 82 anni Salvo Vitale, un altro pezzo importante della nostra storia. Una storia che ho il privilegio e la responsabilità di continuare a trasmettere: quella di alcuni ragazzi e ragazze che volevano cambiare il mondo sfidando il potere della mafia. Lo hanno fatto a Cinisi, in un periodo, gli anni ’60 e ’70, ad altissima densità mafiosa, sotto il controllo del boss Gaetano Badalamenti.
Con i mezzi che avevano, un giornale, mostre, la radio “Radio Aut”, denunciavano traffici e malaffare, anche attraverso la forza dissacrante dell’ironia. Cercavano di scalfire la cultura mafiosa, reazionaria e patriarcale dominante con la musica, la costruzione di momenti collettivi e attività culturali.
Lo facevano insieme a Peppino Impastato, nato in una famiglia mafiosa, fino al 9 maggio 1978, quando la mafia ne fece saltare il corpo con cinque chili di tritolo.
Ma molti di loro, pur sconvolti da quella violenza, scelsero di continuare a lottare in suo nome, al fianco del fratello Giovanni e della madre Felicia, per impedire che Peppino venisse ucciso due volte: la prima con l’esplosivo, la seconda con il depistaggio che cercò di farlo passare per suicida e terrorista.
Tra i compagni più attivi in questa battaglia c’è stato sicuramente Salvo Vitale. Io lo ricordo da sempre. Sono nata nove anni dopo l’assassinio di Peppino, e la sua storia ha segnato profondamente la mia vita e quella della mia famiglia. A raccontarmi di lui è stata prima di tutto mia nonna Felicia, che ha trasformato il dolore in lotta, facendolo diventare voce pubblica, storia collettiva. Ma tanto ho appreso anche da Salvo, che me lo ha raccontato in modo più leggero, con aneddoti affettuosi, fuori dal contesto militante.
Salvo, più grande di Peppino, ne ha condiviso molte battaglie, a partire dalle proteste dei contadini di Punta Raisi contro l’esproprio della terza pista dell’aeroporto, costruita per favorire certi interessi e certi traffici. Ma è soprattutto con Radio Aut che Salvo e Peppino entravano nelle case dei compaesani, denunciando il malaffare locale, ridicolizzando i boss, come il “grande capo Tano Seduto”, nome ironico dato a Badalamenti. Usavano l’umorismo per minare il rispetto e l’onorabilità su cui la mafia basa il proprio potere.
Dopo l’omicidio, Salvo ha dedicato gran parte della sua vita a tenere viva la memoria di Peppino: come scrittore, testimone, divulgatore, anche come voce attiva nella denuncia. Insieme alla famiglia, al Centro Siciliano di Documentazione, ad altri compagni, e a Casa Memoria, che oggi ho l’onore di presiedere, Salvo ha contribuito a tenere viva la memoria e le idee di Peppino che, a 47 anni di distanza, continuano a ispirare nuove generazioni.
Per chi, come me, non c’era in quegli anni, ma ha ereditato questa storia dai racconti di chi è rimasto, ed ha scelto di farla propria grazie all’esempio che ci è stato trasmesso. Dopo mia nonna, scomparsa nel 2004, e a cui devo la mia scelta di raccogliere il testimone, i compagni di Peppino sono stati punti di riferimento determinanti.
Molti di loro, in tutti questi anni, ci hanno lasciati: Fanny, Agostino, Guido, Piero, Mimì, Salvo, e altri. Ci lasciano un grande vuoto ma anche una grande eredità, e una grande storia di resistenza che merita di continuare a vivere. Ed anche se “moriamo un po’ anche noi”, in realtà ci lasciano soprattutto una grande responsabilità: quella di continuare a difenderne la memoria e, soprattutto, di continuare a lottare, anche in loro nome, per una società più giusta e libera in cui, in fondo, non hanno mai smesso di credere.
