Lavoro per sport - di Fabio Scurpa e Silvia Simoncini

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Di circa un milione di addetti nelle decine di palestre, nei tanti centri di fitness, nelle polisportive, negli innumerevoli campi da calcio e tennis, negli stadi di rugby e baseball, nei palazzetti di basket e pallavolo o nelle piscine, ecc., solo 117mila, secondo dati forniti dal Coni, sono riconosciuti come lavoratori titolari dei diritti essenziali.

Il discrimine è la ormai famigerata legge del 23 marzo 1981 numero 91, nata in una situazione di emergenza, perché un magistrato aveva bloccato il mercato calciatori visto che si sarebbe potuto configurare una violazione delle norme sul diritto del lavoro. La 91/81, quindi, è stata concepita esclusivamente per il calcio, ma è diventata il paradigma per distinguere chi è considerato obbligatoriamente un lavoratore e chi no, che coincide esattamente con chi l’ordinamento considera uno sportivo professionista o dilettante.

La linea di confine tra dilettantismo e professionismo è rappresentata esclusivamente da questa legge, che indica quali sportivi sono considerati professionisti (gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici) e disciplina il rapporto di lavoro sportivo inquadrandolo, salvo poche eccezioni, come subordinato, perché svolto a titolo oneroso e con carattere di continuità.

Tuttavia, ai sensi dell’articolo 2, l’elemento davvero determinante ai fini della qualificazione dello sportivo come professionista o dilettante non è la prestazione resa, bensì la pratica di uno sport definito “professionistico” dalla federazione sportiva di appartenenza. Quindi, chi lavora in una federazione autocertificatasi “professionista” ha status e diritti di un lavoratore, chi invece opera in una società dilettantistica può non averlo.

Una tale distinzione, totalmente svincolata dall’attività svolta in concreto dal lavoratore sportivo, presta il fianco a non pochi problemi, soprattutto laddove all’interno degli sport considerati dilettantistici è possibile individuare gli stessi elementi caratterizzanti la prestazione classica del lavoro dipendente (continuità, subordinazione alle direttive gerarchiche, orari di lavoro ben definiti, ripetitività nella prestazione, ecc.).

In numerosi casi poi i dilettanti percepiscono somme (dalle proprie società di appartenenza, dagli sponsor, come premi, ecc.) che sono veri e propri guadagni ma, in virtù del loro inquadramento giuridico, non godono di alcuna tutela. Il divario diviene ancor più evidente se si parla di sport al femminile. Il campo delle attività sportive, infatti, è sempre stato segnato da profonde differenze di genere. Attualmente sono quattro le federazioni che hanno scelto il professionismo: il calcio, il basket, il golf e il ciclismo, ma nessuna di queste ha esteso il professionismo al femminile. Non sono tali quindi le cicliste, le calciatrici, le giocatrici di basket e di golf e chi lavora con loro, allenatori, tecnici, accompagnatori, ecc.

Le conseguenze di questa scelta sono abnormi, non solo con riferimento alle difformità salariali tra uomini e donne, ma soprattutto alle tutele: chi lavora in ambito professionistico avrà copertura sanitaria e tutele previdenziali, assicurazione Inail contro gli infortuni, ecc., mentre la maggioranza dei lavoratori del settore ne sarà escluso.

Questo sistema è favorito anche da una tassazione agevolata per cui i redditi dei cosiddetti dilettanti, non essendo considerati retribuzione, vengono inquadrati dal testo unico sulle imposte sul reddito come redditi diversi, e godono di una no tax area fino a 10mila euro per anno fiscale.

E’ da sottolineare poi come, anche quando il settore dello sport inteso nel senso più ampio è stato inserito nelle varie riforme del mercato del lavoro, l’unico intento del legislatore sia stato quello di sottrarre a queste forme di collaborazione ogni tipo di diritto a partire ovviamente da quello previdenziale.

La mancanza di una disciplina legislativa organica nel settore dello sport dilettantistico ha favorito il proliferare di situazioni di precarietà strutturale e persistente, lavoro spesso sottopagato e lavoro nero, eludendo quanto previsto in materia di diritti del lavoro. Slc e Nidil hanno avviato un progetto nazionale per far emergere i lavoratori di questo mondo, considerati, purtroppo per legge, dei “lavoratori dilettanti”.

Dal 2015 esiste un contratto specifico dello sport sottoscritto da Slc Cgil, Fisascat Cisl e Uilcom Uil, che trova resistenze nell’applicazione proprio a causa della legislazione vigente, purtroppo confermata anche nell’ultima legge di bilancio. Quello che veramente serve è una legge quadro, una legge che consenta una riforma complessiva di un sistema che si regge su normative prevalentemente fiscali, datate, disorganiche e spesso svincolate dalla realtà.

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