Bekaert Figline Valdarno, questa fabbrica non deve chiudere - di Frida Nacinovich

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Giovanni Tarchi sta lavorando, esce per cinque minuti nel piazzale dello stabilimento, lontano dal frastuono dei macchinari che girano a pieno regime. Siamo a Figline Valdarno, nella Bekaert, anche se qui tutti continuano a chiamarla Pirelli. In questa fabbrica in provincia di Firenze viene prodotto lo steel-cord, tradotto in italiano significa cordicelle in acciaio, che costituiscono lo scheletro dei pneumatici. “Stiamo andando avanti, anche se il momento è davvero difficile”. Già, perché alla fine di giugno la multinazionale belga ha annunciato la chiusura dell’azienda entro settembre, e ha subito spedito 318 lettere di licenziamento. Arrivederci e grazie, trasferiamo la produzione.

Una doccia gelata, non solo per gli addetti diretti, ma anche per un centinaio di loro colleghi dell’indotto. Tarchi fa parte della Rsu, è un delegato Fiom Cgil, tre giorni fa è intervenuto in una piazza strapiena per dire che il loro lavoro non può essere buttato in un cestino. “Quando è arrivata la notizia della chiusura della fabbrica abbiamo fatto sciopero – racconta - i manager di Bekaert vogliono spostare la produzione, ma questa fabbrica non deve chiudere. Abbiamo ripreso a lavorare, a pieno ritmo, come se non fosse successo nulla, ma con la morte nel cuore. Aspettiamo di incontrare i dirigenti dell’azienda in Confindustria a Firenze e poi al ministero dello Sviluppo economico a Roma”.

Le speranze di un dietrofront non sono tante, la storia industriale italiana degli ultimi venti, trent’anni ha insegnato che le delocalizzazioni fatte dalle multinazionali sono un meccanismo difficile da smontare. Un incontro al ministero era già stato messo in agenda, ma Bekaert non si era presentata. E anche il governo aveva disertato un appuntamento a cui invece lavoratori, sindacati e le stesse istituzioni locali tenevano parecchio, vista la delicatezza di una situazione che riguarda più di quattrocento lavoratori, tra diretti e indotto. “Nella nostra città, a Figline Valdarno, c’è una partecipazione emotiva al dramma che stiamo vivendo che fa venire le lacrime agli occhi”, osserva Tarchi.

La (ex) Pirelli è un pezzo della storia industriale di Firenze. Eppure Bekaert non vede e non sente ragioni, e preferisce far lavorare fino alla saturazione degli impianti i suoi due stabilimenti in Slovacchia e Romania. “L’azienda dice che lì il lavoro costa meno. Gli operai prendono stipendi che sono un quinto dei nostri, e l’energia elettrica è molto meno cara che da noi perché il prezzo viene scontato alle imprese che fanno attività produttive”. I sindacati metalmeccanici, Fiom in testa, ribattono denunciando il dumping salariale, all’interno dell’Unione europea.

In gioco c’è il futuro di 450 persone, uomini e donne in carne e ossa che hanno famiglie, figli, mutui da pagare. “Abbiamo calcolato l’età media di chi lavora in Bekaert - aggiunge Tarchi – che è di quasi cinquant’anni, per l’esattezza 49,6. Le ultime assunzioni risalgono al 2003. Io sono stato uno degli ultimi ad arrivare in fabbrica, nel 1999. Alcuni miei compagni di lavoro hanno 30, 35 anni di anzianità”. Eppure Bekaert non dovrebbe essere una fabbrica in crisi. Quando ancora era di proprietà Pirelli, fra queste mura c’era il centro ricerca e sviluppo per produrre pneumatici sempre più innovativi, meno inquinanti, più sicuri. Ora all’orizzonte ci sono solo nuvole nere.

“Come si può reinventarsi una vita a cinquant’anni? - si chiede Tarchi - Io in fabbrica ci sono cresciuto, ho fatto solo le scuole dell’obbligo e poi mi sono messo a lavorare. Non siamo idraulici o piastrellisti, che possono cercare lavoro altrove. Certo, qualche cosa si può sempre trovare, ma si tratterebbe di lavori precari, pagati poco e male, e non ci sarebbe la possibilità di far fronte a tutte le scadenze economiche che ha una famiglia”.

Un’intera città si è stretta intorno ai lavoratori di Bekaert, ai suoi figli che vivono un momento difficile. “Mi commuovo ancora mentre te lo racconto, c’è chi è passato per portarci dei dolci per la colazione, qualcuno per risparmiare li ha fatti in casa. Altri sono arrivati solo per farci compagnia. Abbiamo toccato con mano una solidarietà che di questi tempi è difficile da immaginare”. Storie che sembrano di altri tempi, e che invece sono cartoline appena stampate.

Migliaia di persone, in una calda notte di giugno, sono scese in piazza per dare un segnale alla multinazionale: la città è con i suoi lavoratori. All’inumana legge del profitto a qualsiasi costo si aggiunge anche il jobs act. “Non avremmo neanche diritto agli ammortizzatori sociali, solo la Naspi. Non è prevista la cassa integrazione per aziende che avviano le procedure di chiusura”. Gli operai Bekaert combatteranno, la fabbrica non deve chiudere.

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