Un piano straordinario per lavoro e servizi pubblici - di Lorella Brusa e Giovanna Lo Zopone

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E’ indifferibile il ribaltamento del paradigma delle privatizzazioni e dei tagli alla pubblica amministrazione. E’ tempo di reinvestire nel sistema pubblico. 

Sono ormai giunte al termine le assemblee congressuali di base, una straordinaria occasione di dialogo con la nostra gente. L’insicurezza provocata da una crisi economica da cui non siamo ancora usciti, la perdita di un pezzo importante del nostro tessuto industriale e produttivo, la precarizzazione diffusa delle esistenze e il crescente disagio sociale hanno condotto larga parte dei lavoratori e dei pensionati a non riconoscersi più in una classe politica distante ed aliena, incapace di rappresentarli.

La presentazione del documento “Il lavoro È” offre contenuti importanti per la lettura della realtà che le persone vivono in questi anni difficili, fra i più complicati e terribili della storia della Repubblica. Abbiamo costruito una proposta che vuole parlare a un paese ferito e diviso da profonde disuguaglianze, un paese che ha bisogno di riprogettarsi a partire dal lavoro quale agente di coesione sociale, che restituisca dignità alle persone e le metta in condizione di accedere a un’idea di futuro, per sé e per le generazioni che verranno.

Mai come in questo congresso corre l’obbligo di fermarsi a discutere e ascoltare la rabbia e il rancore delle persone contro le élite, contro la politica, contro la mercificazione delle nostre vite. Si muore ancora di lavoro, raccogliendo pomodori o consegnando pasti a domicilio. Si muore anche nella Pubblica amministrazione, come purtroppo successo nei giorni scorsi, vittime due impiegati dell’Archivio di Stato di Arezzo.

C’è un problema legato alla salute e sicurezza e c’è un problema legato ai salari, tra i più bassi in Europa e soggetti peraltro a un dumping contrattuale rilevante. Il lavoro pubblico non è esente da questa condizione: precari e interinali rappresentano una quota consistente degli occupati, assunti per compensare, pur parzialmente, il blocco del turn over a fronte di attività improcrastinabili. Da oltre vent’anni molti governi, di centrodestra e centrosinistra, hanno scelto la strada della dismissione di funzioni, della esternalizzazione dei servizi pubblici e della “liberalizzazione” delle public utilities, in linea con le politiche neoliberiste che si sono affermate in Europa a partire dagli anni ‘80, e che hanno offerto al mercato utili molto interessanti.

 La Pubblica amministrazione è stata definita obsoleta, inefficiente e costosa, con qualche “isola di eccellenza”: anziché coinvolgere le lavoratrici e i lavoratori in un percorso di riforma strutturale, al servizio di cittadini ed imprese, si è scelto di svendere il patrimonio del paese. Una decisione praticata in moltissime realtà, dalla sanità agli enti locali, iniziata con mense, pulizie e lavanderie, e perseguita fino alla gestione o alla cessione di interi settori al privato. Asili nido affidati a terzi, interi reparti ospedalieri finiti alle cooperative. Opere di edilizia pubblica realizzate per mezzo del project financing, apparentemente prive di oneri finanziari per la Pubblica amministrazione ma in realtà soggette a un contributo in conto lavori, un canone annuale, e al corrispettivo per la gestione di spazi commerciali e di servizio dovuto agli sponsor dell’operazione. Nei fatti la spesa complessiva è aumentata, e la capacità di esercitare controlli sulle prestazioni erogate è stata irrilevante.

Ora è indifferibile il ribaltamento del paradigma: è tempo di reinvestire nel sistema pubblico, finanziato attraverso politiche fiscali eque e progressive unitamente a una tassa sui patrimoni e a un reale recupero dell’evasione fiscale. Solo così avremo le risorse necessarie per un sistema universalistico, solidale e inclusivo. Lo Stato deve tornare a programmare le risposte ai bisogni di salute e welfare dei suoi cittadini, investendo sulle strutture e sulle dotazioni strumentali, a partire dalle infrastrutture digitali, e da un piano straordinario di assunzioni e di formazione per tutti i comparti della Pubblica amministrazione.

E’ necessario garantire l’esigibilità dei Lea, e definire Livelli essenziali delle prestazioni sociali su tutto il territorio nazionale, colmando lo scarto fra le diverse normative regionali, poiché la mobilità sanitaria affligge migliaia di uomini e donne, costretti ad attraversare il paese in cerca di risposte a problemi spesso gravissimi.

La spesa sanitaria “out of pocket” assorbe oltre 36 miliardi di euro (e non sempre di prestazioni appropriate) e aumenta ogni anno, così come aumentano le persone che rinunciano a curarsi. Al sistema pubblico rimane la presa in carico dei grandi rischi dell’esistenza, dalle patologie gravi all’emergenza-urgenza. Rimangono le attività non remunerative, dai grandi cronici al disagio sociale, la prevenzione, la medicina del lavoro e del territorio, i migranti. Restano fuori i centri per gli anziani e per i giovani, per i fragili, il disagio mentale, le dipendenze. Resta fuori la non autosufficienza, che grava per gran parte su quel sistema di welfare familiare che ormai non tiene più.

E’ insopportabile sapere che intere aree del paese sono prive di servizi per l’infanzia: si contrasta la povertà anche attraverso un sistema educativo che impedisca la deprivazione culturale dei bambini e delle bambine, e che consenta alle loro mamme di accedere a lavori dignitosi.

E in questi tempi bui i consultori pubblici sono al collasso, e le donne sono costrette a peregrinazioni per poter interrompere una gravidanza, dato che oltre il 70% dei medici si dichiara obiettore di coscienza. Anche questo è indice dello stato di inefficienza del sistema, che non tutela appieno la salute delle donne e l’attuazione della legge. Questo è lo stato delle cose, dopo 40 anni di crociate contro la legge 194.

In definitiva viene meno l’idea stessa di diritto al welfare universale, dopo tanti anni di riduzione dei finanziamenti essenziali e soprattutto di una prospettiva adeguata ai cambiamenti demografici e sociali. Manca ormai da troppi anni un’idea, un progetto di sviluppo per il paese.

Come è possibile far rientrare anche solo di qualche punto l’evasione fiscale, se non si investe sul personale degli enti locali e dell’Agenzia delle entrate? E’ assolutamente improcrastinabile la cancellazione del blocco delle assunzioni, del vincolo che impone alle pubbliche amministrazioni di mantenere la spesa del personale pubblico all’anno 2004 diminuito dell’1,4%. Formazione, piani mirati di intervento e ingressi di nuovo personale per le vecchie e le nuove funzioni degli uffici. Come far funzionare il reddito di inclusione o il nuovo reddito di cittadinanza se nei Centri per l’impiego gli organici e la strumentazione sono insufficienti?

Ancora: è di questi giorni l’allarme dell’Unione province italiane sullo stato delle infrastrutture provinciali. Si tratta della manutenzione di quasi duemila tra strade, ponti, viadotti e gallerie, in condizioni di emergenza a causa dei tagli draconiani degli ultimi anni, che hanno quasi azzerato personale e risorse. Manca personale e formazione ad hoc (oltre che una riorganizzazione efficace), anche per recuperare gli 11 miliardi di euro l’anno relativi all’evasione dei contributi pensionistici, di cui si occupano Ispettori del lavoro, Inail e Inps. Il dato si riferisce soltanto al lavoro dipendente, esclusi dunque almeno altrettanti miliardi relativi a liberi professionisti, artigiani, consulenti e imprese individuali.

“Non vi è alcuno standard su quanto un paese dovrebbe spendere per la salute (…). Il sistema è tanto sostenibile quanto vogliamo che lo sia” (dalla relazione della 12° commissione permanente al Senato sul Sistema sanitario nazionale). Sappiamo che il welfare aziendale non è la soluzione, e se non governato, così come sta accadendo, rischia di essere parte del problema, aprendo ulteriori spazi al mercato. La sanità deve essere pubblica e universale, ma perché continui ad esserlo bisogna difendere i territori, perché è proprio da qui, dai territori, che si possono difendere i cittadini, i lavoratori e le comunità.

Occorre quindi tornare ai fondamentali, ad un sistema che tuteli e protegga realmente, che crei buona occupazione e sviluppo, riducendo disuguaglianze intollerabili per un paese democratico. Il lavoro pubblico è un valore per il paese, per tutti i nostri iscritti, lavoratori e pensionati. Dobbiamo continuare a difenderlo, tutti insieme, a partire da un piano straordinario per il lavoro pubblico.

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