Mi chiamo Hussain e vengo dalla Somalia - di Donatella Ingrillì

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Una testimonianza della tragica odissea dei rifugiati. 

In Somalia la guerra civile perdura dal 1986 attraversando diverse fasi, dalla rivolta contro il regime di Siad Barre, agli scontri più sanguinosi tra il presidente Ali Mahdi e il generale Aidid, fino ai governi nazionali e federali di transizione che vedono opposti per ultimi i gruppi ribelli di Al-Shabaab legati al terrorismo islamico.

Hussain nasce a Mogadiscio il 4 maggio 1994, nel pieno della guerra più cruenta, e vive la sua adolescenza sotto il potere sanguinario di Al-Shabaab. E’ proprio da questo periodo che inizia a raccontare la sua drammatica odissea, la sua disperata fuga dalla morte sicura.

“Eravamo tre fratelli e due sorelle, mio padre non lavorava a causa di un handicap psico-fisico. Uno dei miei fratelli fu lapidato dal regime, le mie sorelle furono rapite da uomini di Al-Shabaab e costrette a sposarli, tutta la famiglia fu minacciata di morte. Io denunciai i fatti alla polizia di Mogadiscio che però era alleata del regime, mi spararono e riuscii a fuggire in Kenia, aiutato dai miei colleghi del garage dove lavoravo come carrozziere”.

“In Kenia – continua Hussain - ho lavorato per un anno circa come lavapiatti e ho messo da parte i soldi per andare prima in Uganda e poi in Sudan. Ero sprovvisto di documenti, e avevo paura di essere mandato nuovamente in Somalia. Decisi dunque di intraprendere il lungo viaggio che mi avrebbe portato in Europa, la cui tappa obbligata era la Libia. Era il 2012, dovetti pagare duemila euro per un passaggio dal Sudan alla Libia. Il viaggio nel deserto durò un mese e dieci giorni, eravamo ammassati su due camion con venticinque persone per camion. Arrivati al confine con la Libia, a 15 chilometri da Tripoli mi hanno lasciato a terra, perché non avevo altri soldi da pagare, in compagnia di altri dieci somali. A quel punto è arrivata la polizia libica, che ci ha portato in un casermone con 350 tra uomini e donne”.

Il racconto di Hussain si fa sempre più drammatico. “Le donne venivano violentate a turno, ogni giorno una diversa, arrivavano in 10 uomini e le portavano via, per riportarle la sera. Un giovane, di fronte alle violenze ripetute sulla moglie, è impazzito. Ci chiedevano soldi in continuazione, sottoponendoci a scariche con tubi elettrici e acqua bollente sulle piante dei piedi, sevizie e torture di ogni genere. Sono arrivati a chiederci fino a 10mila euro. Chi aveva soldi li affidava alle donne in stato di gravidanza, che gli aguzzini non osavano toccare”.

“Finalmente sono riuscito a farmi mandare 300 euro, e mi hanno lasciato su una spiaggia in attesa di qualche barcone disponibile. Sono partito cinque volte e ogni volta il barcone si è capovolto. Una di queste volte eravamo 150 su un gommone di nove metri. Siamo sopravvissuti solo in cinque. Sui barconi ho trascorso venticinque giorni di agonia, senza acqua né cibo, ho visto persone mangiare i compagni di viaggio che non ce l’avevano fatta. Ci veniva fornito dal trafficante libico un Gps da accendere solo nelle vicinanze delle coste italiane, francesi, spagnole o maltesi, e nessuno poteva rifiutarsi altrimenti veniva ucciso”.

L’odissea di Hussain e il suo racconto stanno per concludersi. “Sono arrivato in Sicilia il 28 luglio del 2013, dopo essere stato in Danimarca, dove ho conosciuto la mia attuale moglie con la quale ho avuto il mio prezioso figlio. Dalla Danimarca sono dovuto fuggire in Francia perché senza documenti, e dalla Francia sono fuggito in Italia dove ho chiesto ed ottenuto l’asilo politico. Ora vivo nello Sprar di Capo d’Orlando insieme alla mia famiglia che mi ha raggiunto, abbiamo ottenuto tutti e tre l’asilo politico come rifugiati. Ho lavorato a tempo determinato e cerco di lavorare ed essere utile alla comunità, prestando servizio di volontariato presso l’associazione ‘No Limits’, che si occupa delle disabilità. Provo giornalmente ad integrarmi. Mi sento fortunato, l’Italia mi ha salvato la vita, perché riconoscendomi lo status di rifugiato politico ha impedito che fossi rimpatriato in Somalia, dove sarei andato incontro a morte sicura. Rifarei tutto quello che ho fatto, pur di sfuggire alla guerra e alla morte”.

Tutto questo era possibile fino a ieri. Mentre il presente, con la trasformazione in legge del decreto sicurezza di Salvini, sta già vedendo espulsioni dai centri, riduzione degli Sprar, xenofobia e razzismo. Lottiamo per non farlo applicare, come in alcuni Comuni sta già succedendo. Lo proporremo, come Cgil, anche al Comune di Capo d’Orlando.

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