“Siamo venuti per ricambiare quello che hai fatto per noi” - di Maurizio Brotini

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Ai funerali di Enrico Berlinguer questo scritto campeggiava in un grande striscione portato dagli operai della Fiat. In una stagione come quella odierna, segnata dalla rottura del mondo del lavoro con le forze che a vario titolo vorrebbero richiamarsi alla Sinistra, in quelle parole risuona tutta l’amara verità delle cause e delle risposte. I lavoratori e le lavoratrici del nostro paese piangevano e ricordavano il segretario del Pci. Perché il partito - e lui stesso in prima persona – erano stati ed erano con loro: negli interessi e condizioni materiali da rappresentare, e nella comune battaglia verso un’altra idea di mondo, dove il lavoro fosse strumento di emancipazione individuale e collettiva. Perché Enrico Berlinguer è sempre stato un comunista e un rivoluzionario lungo l’intero arco della sua esperienza umana e politica, lungo tutte le stagioni della sua direzione del partito.

Ricordare con nostalgia la sua figura, sottacendo la passione rivoluzionaria che lo ha sempre animato, lo riduce a una dimensione al limite della banalità. Un uomo onesto, un politico serio, un uomo per tutte le stagioni ridotto a un santino autoconsolatorio alla Veltroni. Era un comunista a capo del più grande partito comunista d’occidente, in un paese a democrazia bloccata per le attività eversive e stragiste degli Usa e dei fascisti, da Portella della Ginestra alle bombe degli anni ‘60 e ‘70.

Oggi ricordare fecondamente Berlinguer vuol dire tornare alle riflessioni degli anni ‘80, ai pensieri lunghi che hanno caratterizzato l’ultima fase della sua stagione umana e politica. Quella stagione che condusse l’esperienza politica del Pdup di Magri e dell’area del manifesto ad aderire al Pci.

A noi deve interessare il “secondo Berlinguer”, quello capace di una coraggiosa autocritica rispetto alla fase del compromesso storico e dell’unità nazionale, quello che sostanzia la svolta andando ai cancelli della Fiat durante la vertenza dei 35 giorni, per dire agli operai che i comunisti stanno dalla loro parte. E che, visitando l’Irpinia distrutta dal terremoto, e constatando le pratiche della Dc nella ricostruzione, lancia l’alternativa di governo incentrata sul Pci. La questione morale nasce dalle pratiche predatorie e spartitorie della Dc, che in un rapporto con la criminalità organizzata piegavano lo Stato a logiche clientelari che perpetuavano lo stato di abbandono e passività dell’intero Mezzogiorno.

Enrico Berlinguer era un dirigente che non volle mai cedere ad una logica adattiva di stampo socialdemocratico, che da “realistica” e “concreta” nei fatti era diventata adeguamento alla realtà come si presentava, consegnandosi ai capitani d’impresa e alle lusinghe del mondo della finanza e dei media. Un dirigente pronto a battersi contro chi, nel proprio partito, era incline a rinunciare all’esser comunista, misurandosi nel cuore dell’occidente capitalistico su una strada che, unendo democrazia e socialismo, fosse capace di superare il capitalismo con il consenso e la mobilitazione delle masse popolari.

Un dirigente che vide con grande lucidità il senso politico dell’attacco portato negli anni ‘80 da Confindustria alle conquiste del movimento operaio: è il passaggio di fase che sta dentro la più generale offensiva condotta da Reagan su scala globale sotto le bandiere del neoliberismo. Il passaggio dell’egemonia neoliberista, dell’austerità, del non ci sono alternative di thatcheriana memoria, dell’eterno presente capitalistico nel quale siamo tuttora immersi. “L’attacco della Confindustria alla scala mobile è un aspetto di un’offensiva che tende a scaricare sulla classe operaia tutto il peso della crisi, non solo riducendo la sua quota di reddito ma colpendo il suo potere contrattuale, quindi sociale, e perciò, in definitiva, la possibilità di esercitare la sua funzione dirigente nazionale”: così Berlinguer leggeva la fase. Vide più lucidamente di gran parte dei dirigenti della stessa Cgil.

Tuttavia perdemmo, così come perse Enrico Berlinguer. Perdemmo con la marcia dei 40mila e col referendum sulla scala mobile. Perdemmo dentro la stagione del superamento del fordismo e del taylorismo. Ma quella battaglia andava fatta perché quello era il livello della sfida: il ruolo politico della classe dei lavoratori. Una sconfitta che permetteva di accumulare forze, recuperando le lacerazioni nei confronti del mondo del lavoro e di chi aspirava ad una alternativa di sinistra come sbocco politico della lunga fase di mobilitazione partita dal ‘68 studentesco e dal ‘69 operaio. Una sconfitta che la stagione del compromesso storico - e della svolta dell’Eur da parte della Cgil - aveva facilitato. Una sconfitta che avrebbe potuto aprire una via, interrogando le trasformazioni che la rivoluzione informatica e le tematiche ambientali ponevano sul come e cosa produrre. Perse Berlinguer e perdemmo noi: ma tutti quelli che lo piansero – pochi non furono e non sono tutt’oggi - ben sentirono che quella non era una sconfitta. Non era una fine, poteva essere l’inizio. In questo mondo grande e terribile, lottare per una società di liberi e uguali rende una vita degna di essere vissuta.

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