Salvare il Servizio sanitario nazionale - di Lorella Brusa

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La Fp Cgil ha presentato una ricerca sulle liste d’attesa. Che fanno crescere il forte malcontento dei cittadini sulla sanità pubblica

Salvare il Servizio sanitario nazionale è una delle priorità nella rivendicazione unitaria, confederale e di categoria, che ha portato in piazza lavoratrici e lavoratori pubblici per la grande manifestazione dell’8 giugno.

Nonostante la costante riduzione dei finanziamenti pubblici e di una serie di elementi problematici - la penuria di personale, la dinamica demografica (invecchiamento della popolazione e bassa natalità), l’aumento delle patologie croniche, gli alti costi delle terapie innovative e della tecnologia avanzata, per citare i più significativi – il Ssn continua a garantire buoni risultati di salute.

E’ però evidente la condizione di fragilità del sistema: tra tagli e definanziamenti, dal 2010 ad oggi, sono stati sottratti 37 miliardi. E il Def 2019, erodendo ulteriori risorse per gli anni a venire, pregiudica la tenuta stessa del sistema. Servirebbero almeno dieci miliardi, questa la stima prudenziale del Cergas Bocconi. Altre ricerche indicano quantità economiche nettamente superiori (Gimbe ed altri), e tutti gli studi esprimono una grande preoccupazione per la sostenibilità del Ssn, con conseguenze gravissime per la popolazione.

Si tratta di un timore evidentemente non condiviso dai governi che si sono avvicendati alla guida del paese. Governi che hanno sottratto risorse al fondo sanitario, disinvestito in edilizia sanitaria (meno 40%), bloccato i rinnovi contrattuali ed il turn-over del personale. La Ragioneria dello Stato segnala 45mila unità perse dal 2009 al 2016, fra cui ottomila medici e 12.500 infermieri. Il rapporto tra personale in forze al Ssn e popolazione (pubblico e privato accreditato) è tra i più bassi d’Europa, e si declina con disuguaglianze territoriali profonde, così come per il numero di posti letto, pubblici o privati.

Il rapporto fra pubblico e privato, non adeguatamente regolato, si traduce in una disparità nell’accesso alle cure, alla prevenzione e alle diagnosi precoci. Diversità di reddito, presenza di welfare contrattuale e regione di appartenenza determinano la possibilità per le persone di essere assistite adeguatamente e di avere migliori possibilità di invecchiare in buona salute. Gli stessi livelli essenziali di assistenza non sono garantiti ovunque sul territorio nazionale. E senza investimenti e personale i servizi non funzionano, così come ci mostra la seconda edizione dell’indagine Crea Sanità sulle liste di attesa, presentata lo scorso maggio dalla Fp Cgil.

Emilia Romagna, Liguria, Marche e Sicilia sono le regioni oggetto dello studio 2019. A fronte di buone pratiche per gestire le liste d’attesa, a partire dall’esperienza dell’Emilia Romagna che è stata ben illustrata nel report, gran parte delle rilevazioni evidenziano tempi di attesa surreali nelle strutture pubbliche o nel privato accreditato, e per contro accessi rapidissimi in regime privato o in intramoenia.

Per i cittadini si tratta di un vero e proprio percorso a ostacoli: un quarto degli intervistati segnala di aver dovuto ricorrere a conoscenze e raccomandazioni per ottenere o anticipare un appuntamento. Viene quindi facile comprendere come quasi il 65% degli intervistati esprima fastidio e rabbia nei confronti della sanità pubblica, vissuta come a rischio di corruzione nella gestione delle liste d’attesa. Un dato che appare come sintomatico di un progressivo deterioramento del legame fra i cittadini e il servizio pubblico.

La soluzione non va cercata nella strutturazione di un “secondo pilastro” di natura assicurativa, lucrosa ed inesauribile fonte di guadagno per gli investitori privati, ma nel ripristino dei finanziamenti e delle condizioni necessarie per rilanciare il Ssn. Nel 2018 abbiamo festeggiato i quarant’anni della legge 833/78, nata dalla straordinaria stagione delle lotte degli anni ‘70, in cui le lavoratrici e i lavoratori si sono resi protagonisti del cambiamento. Una legge che si fonda sui principi di universalità, uguaglianza ed equità. Che parla di partecipazione sociale, di salute, di ambiente e di prevenzione. E che purtroppo, nel corso dei decenni, è stata profondamente modificata da provvedimenti legislativi che ne hanno svilito i principi, anche in ragione della riforma del titolo V della Costituzione.

E’ tempo di tornare a quella partecipazione, riannodando il legame fra il lavoro, le funzioni pubbliche e i cittadini, riportando al centro del dibattito la salvaguardia della salute della popolazione, indipendentemente dalle capacità reddituali di ciascuno. Solo così saremo in condizione di affrontare al meglio la disuguaglianza sociale, vera cifra di questo inizio millennio.

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