Il vero spread è quello emigratorio - di Rodolfo Ricci

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Mentre si era intenti a garantire le migliori condizioni per l’attrazione di investimenti esteri nel paese secondo la ricetta standard sfociata nel jobs act, non ci si accorgeva che un altro investimento ben più consistente defluiva silenziosamente oltre confine. In contemporanea con il maturare della crisi centinaia di migliaia di persone, per lo più giovani (30% laureati, 35% diplomati), riprendeva l’antica rotta dell’emigrazione, fino a stabilizzarsi, dal 2014 ad oggi, intorno alle 300mila persone che lasciano il paese ogni anno.

I dati Istat (cancellazioni di residenza) non davano e non danno l’esatta dimensione del fenomeno, perché chi va all’estero, prima di cancellarsi dalle rispettive anagrafi comunali, attende il momento di una stabilizzazione del proprio percorso migratorio; ciò significa un lavoro sufficientemente stabile che garantisca l’inserimento nel sistema di welfare, assistenza e tutele del paese di arrivo, a partire dall’assicurazione sanitaria. Così lo scarto che c’è tra i dati delle partenze (registrate dall’Istat) e quelle di arrivo (registrate dagli istituti statistici o previdenziali di altri paesi) è consistente, e sta nella proporzione da 1 a 3 e talvolta anche da 1 a 4 e oltre. Per ogni italiano che risulta emigrato in questi anni, dovremmo quindi, secondo una stima ponderata oramai accettata da istituti di ricerca e studiosi, moltiplicare per 2,5 o per 3. (Sotto la comparazione dei movimenti migratori dall’Italia verso Germania e Gran Bretagna nel quinquennio 2011-2015).

Secondo l’Istat, tra il 2008 e il 2017 sono emigrate dall’Italia 738mila persone. Applicando un moltiplicatore di 2,5, dovremmo trovarci di fronte ad un dato di circa 1,845 milioni. Una conferma ci viene dalle Anagrafi Consolari (Maeci), secondo cui la presenza italiana all’estero è lievitata dai 3,2 milioni del 2006 ai quasi 6 milioni di inizio 2019. Si tratta della “seconda regione italiana”, dopo la Lombardia.

Secondo il 42° Rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd, “Continuous Reporting System on Migration”), nel 2016 l’Italia si situa all’8° posto tra i paesi Ocse per entità di flussi di emigrazione.

Ci troviamo di fronte a dimensioni analoghe a quelle degli anni ‘60 del ‘900. Con una differenza non secondaria: l’attuale nuova emigrazione si sviluppa in un contesto di forte flessione demografica, ed è la prima volta che ciò accade nella storia del paese.

Le conseguenze sono inquietanti: secondo lo Svimez (proiezione del 2015), al 2060 il meridione perderà circa 5,5 milioni di popolazione. Secondo l’Istat (proiezione 2018) l’intero paese alla stessa data avrà una popolazione complessiva inferiore di circa 7 milioni rispetto all’attuale.

La spirale tra riduzione demografica e nuova emigrazione accelera il declino del paese da tutti i punti di vista: ne abbiamo già un esempio con quanto accade in molte aree interne del paese alle prese con una desertificazione sociale che sembra ineluttabile. Per le regioni del sud il dato è aggravato dai flussi di emigrazione interna verso nord; oltre 1,8 milioni si sono spostati verso il centro-nord negli ultimi 15 anni. Neanche l’afflusso di immigrazione, ai tassi registrati fino al 2017, è stato in grado di porre un argine alla tendenza alla riduzione di popolazione.

Nel confronto politico nazionale la materia è ampiamente marginalizzata. D’altra parte “Quelli che se ne vanno”, come si intitola un agile e istruttivo libro di Enrico Pugliese, non fanno rumore. Debbono fare molto più rumore i tentativi di approdo di qualche migliaio di profughi dall’Africa contesi da narrazioni conflittuali che si autoalimentano secondo un canovaccio che, con alcune variazioni sul tema, stiamo sperimentando da diversi anni.

Invece, nei tanti parametri nazionali con cui definiamo equilibri e squilibri del paese (consumi, Pil, tasso di attività, entrate fiscali, occupazione, ecc.), la nuova emigrazione non compare. Forse perché siamo disattenti; o forse perché potremmo dedurne che siamo messi peggio di quanto pensiamo, e che quindi gli antichi nodi strutturali andrebbero finalmente sciolti, in Italia e in Europa.

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