Buoni segnali dalla contrattazione decentrata - di Salvo Leonardi

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Ma i rischi peggiori restano fuori da ciò che monitoriamo.  

Lo scorso 22 gennaio a Roma è stato presentato il Secondo rapporto sulla contrattazione di 2° livello, curato dalla Fondazione Di Vittorio (Fdv), sulla base degli accordi acquisti dal dipartimento contrattazione della Cgil e archiviati nell’Osservatorio confederale sulla contrattazione decentrata. Un ricco database, attualmente composto da poco meno di 3mila accordi siglati tra il 2015 e il 2019, grazie al quale siamo finalmente in grado di analizzare e monitorare periodicamente i contenuti e gli sviluppi di un’attività chiave per il sindacato. E di conseguenza vagliare, empiricamente, coerenze e sfasature fra gli indirizzi programmatici espressi dalla nostra organizzazione, e la loro concreta trasposizione nella prassi e nei risultati della negoziazione aziendale e territoriale. Come anche, più in generale, fra il discorso pubblico e accademico sulla qualità dell’innovazione socio-tecnica del lavoro e delle relazioni industriali, e la realtà effettiva per come emerge da un’analisi campionaria, relativa a uno spaccato più avanzato, ma limitato, del nostro tessuto produttivo. Quello composto da aziende coperte da una contrattazione di secondo livello, sindacalizzate e con una presenza costante della Cgil, di dimensioni ampiamente al di sopra delle soglie che nella media caratterizzano, e affliggono, il sistema socio-economico italiano.

Una minoranza privilegiata dunque, in larga parte espressione di un insediamento sindacale oggi più che mai ostruito dalle difficoltà oggettive e soggettive a costituire rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro, in unità produttive sempre più piccole, con rapporti di lavoro sempre più flessibili e datori sempre più inclini a individualizzare e dis-intermediare le relazioni col personale. Una disgregazione che ha giustamente suggerito alla nostra confederazione l’obiettivo strategico di una ricomposizione del lavoro e della sua rappresentanza, mediante una nuova Carta universale dei diritti del lavoro e una “contrattazione inclusiva”, volta a contrastare – nei processi e negli obiettivi – ciò che la ristrutturazione capitalistica scompagina e sottomette.

Di questo sforzo, e di questa ambizione, la contrattazione che emerge dal rapporto della Fdv reca svariate testimonianze. Con riguardo al ciclo 2017-19, i 1.887 testi esaminati – in nettissima maggioranza aziendali (quelli territoriali sono il 10%) – ci dicono innanzitutto di una diffusa ricchezza dei contenuti trattati, attestata dalla pluralità di temi e istituti presenti mediamente in ciascun singolo accordo. Specialmente a livello territoriale, dove ben sette aree tematiche ricorrono insieme in oltre il 30% dei testi e sei al di sopra del 40%.

Come già nel primo, relativo al triennio 2015-17, anche nel Secondo rapporto si conferma il primato del “trattamento economico”, seguito dalle “relazioni sindacali” e dall’ “orario di lavoro”, ma con percentuali calanti in tutti a tre i casi. Sintomo, appunto, di una maggiore spalmatura fra gli 11 temi dello schema di classificazione, ma anche di un certo esaurimento – nel caso del salario variabile – della spinta inizialmente generata dagli incentivi fiscali. Nella componente aziendale del campione la “retribuzione variabile” complessivamente intesa passa dal 51% al 38,4%, mentre fra le voci che ne fanno parte il “premio di risultato” (Pdr) scende dal 40,4% al 32,9%. Cresce invece la quota relativa alla convertibilità del Pdr in welfare aziendale: dall’11,4% al 14,1%.

Le “relazioni sindacali” ricorrono nel 78,7% degli accordi territoriali e nel 47% di quelli aziendali. Fra i primi svetta il ruolo della bilateralità (57,3%), laddove fra i secondi colpisce il ricorso all’“esame congiunto” (27,9%), che doppia quasi quello ai più tenui e ormai canonici “diritti di informazione e consultazione”. Il dato sulla “partecipazione”, nel complesso, non fa registrare significative variazioni; anzi. Delle tre forme di individuate dal Protocollo Cgil, Cisl, Uil del 2016 e, in misura ridotta, nel Patto della fabbrica del 2018 – strategica, economica e organizzativa – le prime due, semplicemente, non sono pervenute, mentre la terza fa registrare solo qualche lieve incremento nel caso del coinvolgimento nell’introduzione di nuove tecnologie (+1,2%), del cambiamento organizzativo (+0,7%) e soprattutto in tema di smartworking, che raddoppia dal 3% al 6%, trainato principalmente dal settore finanziario. Per tutto il resto, si rimane su livelli inferiori al 2%, come nel caso dei sistemi di qualità (1,5%) e della partecipazione diretta (1,2%). Non molto, se li si paragona all’enfasi – e alla retorica – con cui in questi anni manager ed esperti di “Human resource management” hanno avvalorato la tesi di un lavoro sempre più smart e coinvolto.

In ascesa il tema del “welfare integrativo”. Altre indagini, ad esempio quella Ocsel-Cisl (2019), hanno registrato un incremento quasi esponenziale di questa materia, interpretandolo come uno dei tratti più distintivi e qualificanti di quest’ultima stagione. Sia pure con dati meno eclatanti, anche il nostro osservatorio rileva un incremento di queste voci, con una crescita proporzionale sia del welfare contrattuale sia soprattutto di quello aziendale, che ricorrono nel 41,6% della contrattazione territoriale e nel 30,8% di quella aziendale.

Per la prima volta si è deciso di intitolare una voce alla “contrattazione inclusiva”. Il risultato non appare certo esaltante: solo 18 accordi (1,11%), relativi a talune stabilizzazioni di lavoratori a termine. Ma è un dato che sconta la difficoltà di incasellare nominalmente ciò che in realtà costituisce un vero e proprio progetto strategico, più che uno o più istituti, e comunque già rinvenibile implicitamente alle voci sul lavoro atipico, le tutele di welfare, i soggetti vulnerabili, la composizione allargata delle delegazioni trattanti.

Da segnalare infine il ricorso alle deroghe ex articolo 8 legge 148/2011. Lungamente temute come il grimaldello in grado di scardinare gli assetti contrattuali, il loro impiego (esplicito) si conferma del tutto sporadico (2,6%). Ma con l’interessante novità di una sua utilizzazione di marca sindacale, per disinnescare talune conseguenze negative del jobs act e del decreto sicurezza.

 

Tre, in definitiva, ci appaiono i problemi che in maniera più o meno esplicita ci consegna questa ricerca: 1) la diffusione ancora inadeguata della contrattazione decentrata, malgrado i tanti incentivi normativi e fiscali che da anni vorrebbero sospingerla; 2) lo scarto fra il discorso pubblico e sindacale sui temi dell’innovazione e della partecipazione, e la realtà molto parziale e polarizzata che al momento ne dà testimonianza (e per giunta nei gangli più forti e avanzati del sistema); 3) i rischi che si consumano fuori dal perimetro relativamente “protetto” qui osservato, nel combinato e oscuro disposto fra la proliferazione selvaggia di contratti minori e pirata, in alto, e l’integrale aziendalizzazione ex articolo 8, in basso, che in larga misura la motiva. E che solo il legislatore, al punto in cui siamo giunti, potrà – come auspichiamo – disinnescare.

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