Agroalimentare a Verona: esistono anche i lavoratori immigrati - di Mariapia Mazzasette

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Da alcune settimane il coronavirus è diventato il protagonista principale della nostra vita, condizionando pesantemente il nostro modo di vivere. L’imposizione dell’isolamento e del distanziamento, la chiusura di negozi e locali pubblici, hanno praticamente azzerato relazioni familiari e sociali. Il coronavirus però sta rivelando aspetti del nostro modo di vivere a cui non facevamo caso. Mette a nudo i pregiudizi e rivela le contraddizioni che caratterizzavano, e ancora caratterizzano, il nostro quotidiano.

Sta rivelando che le scelte politiche degli ultimi vent’anni di interventi sulla spesa pubblica, riduzione del personale e consegna al mercato di larga parte di settori pubblici, non sono state prive di effetti. Le scelte propagandate per “efficientamento” del sistema e riduzione della spesa si sono rivelate per quello che sono: una riduzione della capacità di agire del servizio pubblico, di fatto una riduzione di tutele ai cittadini e alle cittadine. La scelta (scellerata) di regionalizzare il servizio sanitario sta comportando interventi diversi a seconda dell’area geografica, e difficoltà ad avere dati omogenei su diffusione del contagio e numero reale dei decessi. Il personale sanitario che fino a ieri era additato come nullafacente, responsabile degli interminabili tempi di attesa e dell’incapacità di soddisfare in tempi decenti le richieste di visite ed esami, si è trasformato in eroe da applaudire sui balconi, e a cui dedicare servizi giornalistici quotidiani.

Il coronavirus sta soprattutto evidenziando che il lavoro esiste ed è fondamentale per la sopravvivenza del mondo in cui viviamo, al punto che si chiede il sacrificio di lavoratori e lavoratrici, non solo del personale sanitario e dei servizi pubblici, ma di qualsiasi settore, pena il crollo dell’economia.

Rivela che nel mondo del lavoro non siamo tutti uguali. C’è chi rimane a casa e chi deve lavorare, chi gode di ammortizzatori sociali e chi resta senza lavoro, chi può fare lo smart-working e chi invece deve continuare a lavorare nelle linee produttive con il rischio del contagio.

La filiera agro-alimentare non ha mai smesso di produrre. Fin dai primi giorni della pandemia il sindacato è intervenuto per contrattare modifiche organizzative che consentissero di lavorare in sicurezza. E se nelle aziende sindacalizzate siamo riusciti ad attuare adeguate misure di tutela, nelle piccole aziende non sindacalizzate è veramente arduo riuscire a vigilare efficacemente sull’applicazione di quanto previsto dal Protocollo sulla sicurezza del 14 marzo.

Prezioso è il lavoro di delegate e delegati che hanno continuato, nell’impossibilità di fare assemblee, ad ascoltare i colleghi, a verificare il rispetto dei protocolli, a dare risposte a chi aveva paura ed era costretto a lavorare o a chi doveva accudire i figli a casa da scuola. Un’altra rivelazione del coronavirus: il sindacato serve.

Con il passare dei giorni la paura del contagio è stata sostituita dalla paura di perdere il proprio reddito o addirittura il posto di lavoro. La contrazione degli ordinativi, determinata dalla chiusura di molte attività, sta scaricando anche sulla filiera agro-alimentare gli effetti della crisi da coronavirus. I primi a subirla pesantemente sono i lavoratori precari: interinali, stagionali, tempi determinati rimasti senza lavoro. Assai numerose sono state le richieste di cassa integrazione di laboratori artigianali, piccole industrie, agriturismi, florovivaisti, ma anche aziende agricole e cantine. In provincia di Verona nell’agroalimentare sono state presentate finora oltre 250 domande di integrazione salariale. Nemmeno le grandi aziende restano indenni: Coca Cola, Sammontana, Gruppo Italiano Vini stanno riducendo le produzioni.

Particolarmente investita dall’emergenza coronavirus è pure l’agricoltura, ma per motivi opposti: non c’è manodopera. Per anni ci hanno raccontato che era in corso un’invasione di stranieri, arrivati in Italia per delinquere o per “fare la bella vita” a nostre spese. Ora che la maggior parte di questi stranieri è bloccata nei paesi d’origine, non riusciamo a raccogliere i prodotti dai campi.

Nella provincia veronese è un’emergenza nell’emergenza. La frutta e la verdura prevalentemente destinate all’export corrono il rischio di marcire nei campi per assenza di braccia. Un’altra rivelazione: abbiamo bisogno degli stranieri, soprattutto perché lavorano molto, per pochi soldi e nessun diritto. Terminata l’emergenza, sapremo fare tesoro di ciò che il coronavirus ci ha svelato?

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