Como: cronache dal centro della pandemia - di Matteo Mandressi

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Cronache dal centro della pandemia, 6 maggio 2020, Como, Lombardia. In un mondo apparentemente a rovescio, con il ribaltamento del paradigma nord-sud d’Italia, uno dei motori d’Europa si trova ad essere centro mondiale dell’infezione. Superata Wuhan per numero di contagi e decessi, ci si interroga su un modello di sviluppo che appariva incontrovertibile.

La provincia da cui scrivo si colloca nella fascia medio bassa della virulenza dell’epidemia. Nonostante ciò si contano 3.300 contagi e 500 decessi, con un numero di guariti inferiore a quello dei morti. L’osservatorio comasco mi permette di sviluppare alcune considerazioni di carattere economico, sociale e sanitario sul cosiddetto modello lombardo. Abbiamo passato una larga parte dell’ultimo ventennio a stigmatizzare i limiti dell’eccellenza sanitaria formigoniana. Un colosso dai piedi d’argilla. Il binomio creato dai tagli della spesa pubblica, affiancato alla competizione tra pubblico e privato in sanità, oggi presenta crudamente il conto. La ospedalizzazione della salute e la cancellazione di qualsiasi forma di rete territoriale dell’offerta pubblica hanno permesso al virus di propagarsi indisturbato. Nessuna rete di controllo epidemiologico si è dispiegata sul territorio. Il dramma di Bergamo e Brescia resterà a lungo nei nostri occhi.

A Como le denunce della Cgil delle scorse settimane, inascoltate dalle istituzioni locali, hanno purtroppo colto nel segno, sollevando lo scandalo delle Residenze sanitarie assistenziali. In alcune strutture abbiamo rilevato un’incidenza del contagio all’80% dei posti letto, con tassi di mortalità che sono arrivati a sfiorare il 400% rispetto all’anno precedente. Ineluttabilità degli eventi o politiche socio sanitarie profondamente sbagliate? Chi fa il nostro lavoro non può che propendere per la seconda opzione. E il movimento dei lavoratori deve presentare il conto ai decisori politici.

Le cronache più coraggiose, di chi oggi ha voglia di fare informazione militante e di approfondimento, ci parlano di piani pandemici mai aggiornati, chiusi nei cassetti dei palazzi della Regione. Il totale fallimento dell’ultima riforma sanitaria lombarda, la numero 23 del 2015. I titoli recitavano: presidi territoriali, presa in carico dei pazienti cronici, nuovi distretti. Nulla di tutto ciò ha avuto uno sviluppo efficace nella nostra provincia, evidenziando i già gravi limiti dell’aziendalizzazione della sanità, dei primari scelti per logica d’appartenenza politica.

Como è un perfetto microcosmo del modello lombardo. Il nosocomio cittadino, recentemente ricostruito ai limiti della conurbazione, è divenuto un centro per acuti, disinvestendo sulla medicina di base e spopolando il territorio di una necessaria articolazione di salute e prevenzione. Il welfare, poco pubblico e molto privato e integrativo, ma spesso in realtà sostitutivo, ha dimenticato le fasce della marginalità. In questo scenario si va ad iscrivere una crisi, ormai annosa di vocazione della città. Crisi politica, crisi economica, crisi sociale. Ma soprattutto crisi progettuale.

Como, città dei più grandi architetti razionalisti della storia del nostro paese, non ha costruito alcuna visione sul futuro. Un luogo di pieni e vuoti: ampie aree industriali dismesse e nodi strategici mai sviluppati della città. Una delle province più ricche d’Italia che mai è riuscita a risollevarsi dalla crisi della manifattura più importante, quella del comparto tessile.

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un improvviso quanto impetuoso ed inaspettato sviluppo del settore turistico. Il lago di Como è divenuto un brand mondiale: “Lake of Como”. Anche in questo caso la Camera del lavoro ha denunciato i rischi di uno boom economico non sedimentato in un’offerta duratura. Capace di produrre grandi profitti per pochi e molto lavoro povero. Nessuna politica di redistribuzione delle risorse e tanto sfruttamento della manodopera migrante, con vaste sacche di lavoro nero. Oggi la pandemia ha cancellato l’intero settore, e nulla di un apparente benessere è rimasto sul territorio.

Chiudo con la prima azienda, per numero di occupati, della città e della fascia insubrica prealpina: i frontalieri. Sono 60mila le lavoratrici e i lavoratori che dalle province del nord ovest lombardo e dal vicino Piemonte si recano ogni giorno ad operare nei cantoni elvetici: Ticino, Grigioni e Vallese. Da Como oltre 20mila. Anche in questo caso l’assenza di politiche transfrontaliere presenterà un conto salato alla provincia lariana. Il virus che non conosce l’alt alla dogana ha già portato con sé qualche migliaio di licenziamenti e un contagio di ritorno. Il Canton Ticino ha infatti scommesso sull’immunità di gregge più che sulle politiche di contenimento dell’infezione. Cronache dal centro della pandemia.

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