Rider, il cottimo su due ruote del ventunesimo secolo - di Frida Nacinovich

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Quando buona parte delle italiane e degli italiani, per non parlare del resto del pianeta, erano a casa, loro erano fuori. Sfrecciavano con le biciclette, o con i motorini, su strade semideserte. Veloci, sempre più veloci, per portarti il ristorante a casa. Quello dove non potevi più andare, attrezzato per vendere pietanze da asporto. E loro, i rider, all’uscita delle pizzerie, delle trattorie, anche dei pub, disciplinatamente in fila ad aspettare che i piatti fossero pronti. Con qualsiasi tempo, pioggia o vento, caldo o freddo, i clienti non aspettano. E loro, se non lavorano, non guadagnano. L’ingiustizia, conclamata, di un lavoro a cottimo che in teoria non dovrebbe esserci, ma che in pratica costituisce la colonna vertebrale della cosiddetta economia informale.

Sebastiano Pala ha ventun anni, è uno studente universitario fuori sede, per aiutare i genitori a pagare tasse e affitto si è messo sulle spalle l’ormai ben conosciuto zainetto. “Sono nato a Cagliari – racconta - e studio scienze politiche a Milano. Con la mia bicicletta ho lavorato per Deliveroo, una delle grandi piattaforme di consegna di cibo in rete. Ho trascorso solo una parte del lockdown a Milano, poi sono riuscito a raggiungere i miei. Appena le grandi compagnie hanno intuito che saremmo andati verso la chiusura, hanno assunto un numero impressionante di fattorini”.

Il virus in questo caso non ha fermato gli affari, anzi il contrario. È andata a finire che i già magri guadagni dei rider si sono ulteriormente ridotti, si parla di cifre che non superano abitualmente i cinque euro l’ora, a cui va aggiunto un euro a consegna e 36 centesimi a chilometro percorso. Ora Sebastiano ha cambiato compagnia, è passato a Glovo. “Anche se sospendi il lavoro per qualche mese, non è difficile ritrovarlo, avviene tutto on line. Basta registrarti sulle piattaforme delle società di consegna a domicilio”. Che si chiamino Glovo, Deliveroo, Uber Eat, JustEat, tutte offrono contratti a prestazione occasionale. Con lavoratori ‘autonomi’ che non vedono né vedranno mai il loro datore di lavoro. “Vieni ‘assunto’, messo alla prova e poi valutato da un algoritmo, che analizza le tue performance. Tutto avviene in rete: l’app sul tuo smartphone ti dà due indirizzi, quello dove andare a prendere l’ordinazione e quello del cliente cui consegnarla”. Un occhio alla strada, e l’altro al percorso che Google Maps ti suggerisce, spesso in una città che non conosci bene.

Va da sé che gli imprevisti e anche gli incidenti sono dietro l’angolo. “Devi possedere una bicicletta o un motorino. In alcuni casi, come per Glovo, è necessario anche pagare un deposito cauzionale, che ti viene sottratto dalla prima busta paga”. Sono 60 euro e comprendono pettorina, box di consegna, caricabatterie portatile autoalimentato. “Ogni spesa per la manutenzione del mezzo è a tuo carico - precisa Pala - e se per caso ti rubano il sellino mentre sei a fare la consegna, a qualcuno è successo, perdi il turno e il salario”.

Uno dei tanti scandali che hanno accompagnato la vita quotidiana dei rider durante i due mesi di chiusura è stato l’assoluto menefreghismo delle piattaforme in tema di dispositivi di protezione individuale. “È stato tutto a carico nostro, dalle mascherine ai guanti, fino ai disinfettanti”. Parlando con Sebastiano si vengono a scoprire procedure che si fa fatica anche solo a immaginare: “Noi rider abbiamo un ranking, una sorta di graduatoria. L’essere disponibile nelle ore di punta, nei fine settimana, determina anche la possibilità di scelta dei turni. Se scendi in classifica ti toccano turni terribili”.

La stragrande maggioranza delle compagnie di food delivery ha sistematicamente fatto ricorso ai contratti di collaborazione occasionale, salvo chiedere, al raggiungimento della soglia massima di 5mila euro di compenso nel corso dell’anno, l’apertura della partita Iva. “Puoi solo immaginare cosa sappiano della partita Iva tanti di noi. A partire dagli immigrati, che magari hanno anche problemi con la lingua. All’occorrenza forniscono, a pagamento, anche un commercialista. Di loro fiducia, sia chiaro”. Purtroppo non ci sono solo gli studenti fuori sede, che in questo modo aiutano le famiglie a pagare l’affitto, c’è tanta gente che ha un disperato bisogno di guadagnare qualche euro. “Moltissimi sono immigrati, anche senza permesso di soggiorno. Chi ha già una registrazione alla piattaforma può approfittarne, basta ‘prestare’ zaino termico e smartphone dotato di app. Va dà sé poi che il titolare pretende la percentuale sui soldi guadagnati dall’altro. Vere e proprie forme di caporalato”.

Alla fine i rider hanno iniziato a protestare. “Come Nidil, Filt e Filcams Cgil ci stiamo attivando in svariate città d’Italia, anche in vista della conversione in legge del cosiddetto decreto Di Maio”. Flash mob e pedalate collettive per ottenere un minimo di diritti e tutele, e superare l’attuale stato delle cose. Altro che lavoratori autonomi della gig economy, si chiama sfruttamento.

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