I vizi formali e procedurali del licenziamento disciplinare: l’intervento della Corte Costituzionale - di Lorenzo Fassina

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La Corte Costituzionale, con una seconda pronuncia dopo la n.194/2018 (sentenza n.150 del 24 giugno 2020), è nuovamente intervenuta sul cosiddetto Jobs Act, dichiarando l’illegittimità costituzionale del calcolo automatico della indennità risarcitoria prevista per i vizi formali e procedurali del licenziamento dall’articolo 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, laddove impone al giudice di liquidare un “importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

In sostanza la Corte afferma che, nel rispetto dei limiti minimo (2 mensilità) e massimo (12 mensilità) oggi fissati dal legislatore, il giudice, nella determinazione dell’indennità, terrà conto innanzitutto dell’anzianità di servizio e, in chiave correttiva, di altri criteri desumibili dal sistema: la gravità delle violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti.

La Corte aggiunge poi che “spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”.

Quest’ultimo inciso è un monito al legislatore a rivedere l’intero apparato sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi. Un monito che si aggiunge alla decisione dell’11 febbraio 2020 del Comitato europeo dei diritti sociali sul reclamo collettivo promosso dalla Cgil contro l’Italia. Tale decisione ha infatti ritenuto contraria all’articolo 24 della Carta sociale europea la fissazione non solo dell’automatismo risarcitorio, bensì anche di un tetto massimo che svincoli le indennità, come quella prevista dal censurato articolo 4 del d. lgs. n. 23 del 2015, dal danno concretamente subìto.

Secondo l’orientamento del Comitato europeo dei diritti sociali, il rimedio compensatorio, ove previsto in alternativa rispetto alla reintegrazione, rappresenta una adeguata forma di riparazione soltanto quando assicura un ristoro tendenzialmente integrale del danno provocato dal licenziamento illegittimo. Sulla base di tali radicali considerazioni del Comitato, la parte privata aveva richiesto alla Corte Costituzionale di dichiarare l’illegittimità consequenziale dell’articolo 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 anche nella parte in cui sancisce il tetto massimo di dodici mensilità, anziché di trentasei mensilità come ora previsto per i vizi sostanziali del licenziamento.

La richiesta di innalzamento del tetto massimo è stata respinta perché essa, per dirla con la Corte, “adombra, in realtà, una diversa questione di legittimità costituzionale, che verte sul trattamento difforme, quanto alle soglie, tra vizi formali e vizi sostanziali”. Purtroppo però la questione non è stata sollevata dal Tribunale di Bari.

La Corte ricorda altresì – ed è importante sottolinearlo - che le norme formali e procedurali del licenziamento disciplinare rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica: “l’obbligo di motivazione, infatti, è tratto qualificante di una disciplina volta a delimitare il potere unilaterale del datore di lavoro, al fine di comprimere ogni manifestazione arbitraria dello stesso. (…) La violazione delle prescrizioni formali e procedurali, all’origine di un possibile e più ampio contenzioso riferito al recesso del datore di lavoro, rischia di disperdere gli elementi di prova che si possono acquisire nell’immediatezza dei fatti e incide, pertanto, sull’effettività del diritto di difesa del lavoratore”.

Queste ultime affermazioni sul carattere fondamentale delle garanzie formali e procedurali, e la precisazione che la ridotta indennità risarcitoria è solo residuale all’esito infruttuoso degli altri accertamenti giudiziali, potrebbero rafforzare quanto già affermato dalla giurisprudenza di merito, secondo cui la totale mancanza di motivazione o la totale mancanza del procedimento disciplinare può essere equiparata alla mancanza del fatto, e come tale dar luogo alla reintegra sul posto di lavoro.

La sentenza della Corte apre dunque nuovi scenari sia per il legislatore futuro sia per il cantiere sempre aperto della giustizia del lavoro.

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