Bolivia: i golpisti civico-militari continuano ad allontanare le elezioni - di Vittorio Bonanni

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In Bolivia, come nel resto dell’America Latina, gli Usa premono per impedire con la forza o con golpe “istituzionali” i processi democratici e le vittorie dei governi di sinistra. 

Gli Stati Uniti d’America hanno da sempre condizionato drammaticamente la storia del continente latino-americano. Non sfugge a questa regola non scritta il caso boliviano. Gli ultimi anni e mesi sono stati caratterizzati da veri e propri tentativi di colpo di Stato organizzati contro il legittimo presidente Evo Morales, esponente dei nativi boliviani, rieletto il 20 ottobre 2019 ed ora in esilio insieme al suo vice Alvaro Garcìa Linera, ad Adriana Salvatierra, presidente del Senato, e Victor Borda presidente della Camera. Tutti fuori dal Paese a causa delle pressioni dell’esercito e della polizia e tutti accusati dall’opposizione di brogli elettorali, mai confermati neanche da organismi indipendenti.

A sostituire Morales è arrivata il 12 novembre scorso l’esponente della destra bianca Jeanine Añez Chavez, avvocato, già membro dell’assemblea costituente, che ha assunto l’incarico ad interim, impegnandosi ad indire nuove elezioni entro 90 giorni. Data già procrastinata in un primo momento a giugno 2020, e poi successivamente al 6 settembre e poi ancora al 18 ottobre.

L’assenza in Parlamento per protesta del partito di Morales ha permesso alla Añez Chavez di avvalersi di una “situazione di emergenza” per insediarsi al Palácio Quemado, sede della presidenza. Aggiungendo che la sua decisione di restare ancora alla testa del Paese era dovuta, secondo lei, all’allarme coronavirus. Insomma per Añez Chavez le elezioni “sono state posticipate unicamente per evitare rischi per la salute dei cittadini”.

Tutto questo sta avvenendo in un contesto di grande tensione tra una destra paragolpista, all’interno della quale trovano spazio realtà come l’Union juvenil e la Resistencia juvenil kochala, massime espressioni della destra bianca, e un movimento di sinistra che rappresenta la maggioranza del Paese costituita da indigeni.

In questo contesto si è fatta sempre più strada l’idea che ormai fosse tardi per arrivare a un compromesso, e a nulla è valsa la decisione del Mas (Movimento per il socialismo) di votare, dopo l’accordo raggiunto con il Tribunale supremo elettorale con la mediazione delle Nazioni Unite, un’intesa che fissava il 18 ottobre come la “data definitiva, improrogabile e inamovibile”, e l’appello di Morales, nel frattempo accusato anche di terrorismo, genocidio e delitti contro la salute, dal suo esilio argentino, preoccupato per una possibile ulteriore radicalizzazione del conflitto.

La base sociale del Mas, che Morales non riesce completamente a controllare, rappresentata dalla Cob (Centrale Operaia Boliviana), non vuole sentir parlare di un ulteriore spostamento dell’appuntamento elettorale fissato ora per il 18 ottobre, e chiede che questa data sia votata dall’Assemblea legislativa plurinazionale insieme alle dimissioni dalla presidente Añez Chavez. Una prova di forza, quella tentata dal cosiddetto Pacto de Unidad (la coalizione di movimenti che sostengono il Mas), che non sembra destinata ad aver successo.

 

È del tutto evidente che questa guerra che gli Usa hanno dichiarato nei confronti dei vari tentativi di creare delle esperienze avanzate socialmente nel continente sud americano non ne vuole sapere di fermarsi. Ed è sempre più forte nella misura in cui governi progressisti e di sinistra riescono a raggiungere risultati importanti, come una crescita economica rilevante, una autonomia dalle feroci ingerenze delle multinazionali, e una crescita importante sul fronte dell’alfabetizzazione, tanto da far entrare la Bolivia, insieme a Cuba (esclusa dal 1962 al 2009 dall’Organizzazione degli Stati americani) e al Venezuela nel novero dei Paesi latino-americani usciti dall’analfabetismo.

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