Ancora sulla annosa questione del rapporto tra “élite” e “popolo”. Alcune brevi considerazioni - di Giorgio Riolo

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Nell’agosto scorso, sul manifesto, Luciana Castellina giustamente replicava, come disaccordo netto, all’affermazione di Fausto Bertinotti secondo il quale “sostituire la lotta di classe con l’ecologismo sarebbe una catastrofe”. Castellina ricordava cosa accadde quando, anche a seguito della pubblicazione nel 1972 del famoso libro del Club di Roma “I limiti dello sviluppo”, anche il manifesto cominciò ad affrontare i problemi dell’ambientalismo ecc. entro il quadro ovvio delle posizioni della Nuova Sinistra di allora. E ricordava le solite reazioni di altre formazioni di detta sinistra. Non era solo Lotta Continua, citata dall’autrice. Ricordo solo Servire il Popolo e altri ortodossi, con le consuete e settarie accuse di “deviazionismo piccolo-borghese” ecc. Oggi i soliti ortodossi, strutturalisti, economicisti, deterministi, userebbero altre espressioni. Una fra tutte è “eclettismo”.

Ma qui mi preme ricordare che nel dibattito allora non esistevano solo queste formazioni. Come in questa occasione agostana. Bertinotti e Castellina sono solo personalità conosciute, visibili in superficie, il cui vasto e importante retroterra è purtuttavia costituito dal cosiddetto “popolo di sinistra”, in particolare dalla sinistra sociale diffusa.

Con il dovuto merito da accordare al manifesto, il quale già dal 1971 influenzò molto la formazione politica e culturale di molti di noi, esisteva già allora una sensibilità, soprattutto in chi proveniva dai movimenti del cristianesimo di base, come nel mio caso, una sensibilità multilaterale, multidimensionale, propria di quelli che oggi denominiamo movimenti antisistemici. Per le persone, compagne e compagni in questi movimenti, non esisteva solo la contraddizione capitale-lavoro salariato. Già allora molti di noi pensavano che il capitalismo fosse un sistema che presentava un insieme di contraddizioni.

Oltre alla decisiva contraddizione capitale-lavoro, e relativa lotta di classe, le contraddizioni uomo-natura e produzione-ambiente, uomo-donna, libertà formale-diritti sociali, guerra-pace ecc. erano, e sono, altrettanto decisive. Anche in vista dell’alleanza dei soggetti antisistema (“grande alleanza delle vittime del capitalismo”, inclusi popoli e soggetti delle periferie del mondo, diceva Paul Sweezy).

Questa premessa aiuta a riprendere e riconsiderare l’annosa questione del rapporto “élite” e “popolo”. Nel caso sopraccitato, nel campo della sinistra, di varia natura e tendenza.

In un precedente articolo abbiamo ricordato l’importante figura di Giuseppe Prestipino. La personalità di Prestipino, la sua fisionomia intellettuale, politica e morale, ci consente di fare qui, nella brevità di un articolo, alcune considerazioni generali e importanti sulle due nozioni in questione. Due nozioni oggi necessariamente da riempire con altri contenuti sociologici, rispetto alla morfologia sociale con cui aveva a che fare e su cui rifletteva Antonio Gramsci, soprattutto in riferimento alla storia italiana, nei suoi “Quaderni del carcere”.

Così come la storia in generale e la storia dei movimenti sociali e politici in particolare mostrano, il ruolo dei gruppi dirigenti è decisivo. Là dove c’è organizzazione il pericolo della verticalità delle gerarchie, dei ferrei rapporti gerarchici e del consolidarsi di oligarchie, è veramente reale. Da qui la deriva della separatezza dei gruppi dirigenti. In ogni dove, non solo nel mondo politico.

Le élite, anche quelle “buone”, della sinistra, non si possono eliminare, ma contenere-trasformare sì. Allora occorre un supplemento nella formazione culturale e nell’etica pubblica, unito a una rigorosa selezione di detti gruppi dirigenti. Anche per scongiurare quella che famosi studiosi della politica hanno designato come “circolazione delle élite”, nella quale vengono e si fanno coinvolgere esponenti provenienti dal movimento operaio, socialista e comunista, inclusi esponenti provenienti dai movimenti sociali e solidaristici. Con relativi privilegi, riconoscimento e scalata nello status sociale ecc.

La democrazia è ancora una volta la posta in gioco. La democrazia partecipativa come soluzione è il tertium tra democrazia rappresentativa, per più versi in crisi e delegittimata, e democrazia diretta. Questo nella società capitalistica in generale, soprattutto nell’epoca del dirigismo e dello spossessamento politico a opera del neoliberismo. E, per quanto ci riguarda, negli organismi e nelle organizzazioni sociali e politiche della sinistra. Forme politiche e forme organizzative su cui lavorare, riviste e riformate, in vista di quella democrazia partecipativa e della possibile riduzione del divario tra “élite” e “popolo” entro la sinistra.

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