Tigray: ritorno del conflitto e tragedia umanitaria - di Salvatore Marra

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Un conflitto dai confini non tracciabili, quello che si sta consumando nel Tigray. Un’agenzia locale ha dichiarato più di 10mila morti; l’Etiopia ne dichiara mille. Decine di migliaia sono certamente gli sfollati. Nel dibattito pubblico, però, ci si è concentrati quasi più sull’opportunità del Premio Nobel al primo ministro etiope Abyi Ahmed che sulla tragedia umanitaria in corso, sulle ragioni del conflitto e su come affrontarle.

Un conflitto a ciel sereno, è stato descritto da alcuni. Certamente inatteso, se si pensa agli intensi sforzi diplomatici in corso da qualche anno nell’intera regione del Corno d’Africa per promuovere pace e riconciliazione fra i diversi popoli. A lacerare la regione, in questo caso, non si tratta di un conflitto fra Stati, bensì di un conflitto interno ad uno Stato, quello per l’appunto del Nobel per la pace, nonché il più grande dell’Africa per estensione e fattori demografici ed economici.

Le organizzazioni sindacali avevano cominciato a muovere i primi passi in direzione di percorsi di pace ben prima dei governi e delle istituzioni, in linea con i contenuti della Raccomandazione 205 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sull’occupazione e il lavoro dignitoso per la pace e la resilienza.

Durante la Conferenza internazionale del lavoro del 2018 le organizzazioni sindacali di Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia, Sud Sudan si sono riunite per sancire la fondazione di Hactu (Horn of Africa Confederation of Trade Unions), la confederazione sindacale del Corno d’Africa. Una delle prime iniziative è stata quella di stilare un piano di azioni per ogni Paese per consentire al sindacato di contribuire alla promozione della pace attraverso il lavoro dignitoso. Un piano d’azione a cui la Cgil sta contribuendo, tramite progetti mirati in cooperazione con i sindacati locali.

Una delle prime azioni, di alto valore simbolico per i due Paesi, è stata la visita di delegazioni del sindacato eritreo Ncew in Etiopia, seguita da una delegazione del sindacato etiope Cetu in Eritrea nel 2019. Non avveniva da oltre 30 anni.

Il conflitto nel Tigray è sembrato in questo senso un brusco ritorno al passato, fatto di divisioni etniche e di interessi di parte dell’establishment, che pare avere male interpretato o non aver voluto accettare di leggere il presente attraverso nuove lenti. Irrigidimenti ed errori compiuti sia dal fronte governativo sia dal fronte tigrino. Sorprende che a questo conflitto si sia arrivati a freddo, senza quasi mediazione alcuna fra le due parti per poter fermare le armi. D’altronde, ogni intervento diretto a livello internazionale su un conflitto interno sarebbe stato letto da più parti come un’ingerenza intollerabile negli affari di uno Stato indipendente. Anche l’azione dell’Onu è stata incredibilmente timida; una voce stentata in un chiacchiericcio indistinto di dichiarazioni di solidarietà nei confronti dell’una o dell’altra parte.

Capire come sia la situazione in Tigray oggi è più che mai complicato. Da diverse settimane i contatti telefonici e informatici non sono possibili e le informazioni di prima mano scarseggiano. Sempre più insistenti sono le voci che vorrebbero l’Eritrea coinvolta direttamente nelle ostilità. Manca soprattutto una narrazione di chi la guerra l’ha subita, in un contesto già difficile provato da cavallette e siccità.

Le popolazioni del Tigray sono le vere vittime di questo conflitto internazionale. E lo sono le aziende e i lavoratori che con coraggio avevano investito e iniziato a lavorare nella regione anche grazie a investimenti internazionali, in un’Etiopia che sembrava correre davvero verso il miglioramento delle condizioni sociali e democratiche.

L’unica narrazione visibile sono le colonne di rifugiati che lasciano l’Etiopia verso il Sudan. Ancora una volta sono i più poveri ad accogliere i poveri; con l’aiuto delle organizzazioni umanitarie internazionali, certo. E una solita nota grande assente, l’Unione europea, che poco o nulla ha dichiarato e fatto per il vicino Corno d’Africa, tanto citato quando si tratta di bloccare i flussi migratori.

Sarà molto difficile ricomporre un dialogo dopo questo conflitto, ma sarà necessario farlo. L’Etiopia e tutto il resto dell’Africa orientale svolgono un ruolo fondamentale in questa fase, e l’Ue dovrà necessariamente ritrovare protagonismo e idee ben al di là della nuova strategia di partenariato Ue-Africa annunciata per il 2020, ma slittata a quest’anno per motivi legati alla pandemia.

La preoccupazione per le condizioni dei civili e il rischio che questo conflitto si traduca in ulteriore povertà e miseria per le popolazioni locali sono più che concreti. Molti analisti indicano la possibilità che il conflitto si trasformi in una lunga (e semi-latente) guerra civile, sanguinosa e silenziosa. Tutto ciò deve essere scongiurato, e una mobilitazione delle istituzioni, della società civile e del movimento pacifista è più che mai necessaria.

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