Intellettuali e sindacato - di Fabrizio Denunzio e Mara D’Ercole

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Contro ogni idealizzazione, una piattaforma di idee.  

In diversi campi delle scienze umane sembra vigere un’immagine sublimata del sindacato, che in fin dei conti risulta essere più da ostacolo che da stimolo alla formazione della coscienza critica dei lavoratori e alla rivitalizzazione del sindacato stesso. Tanto in quelle a vocazione maggiormente teorica come la filosofia, quanto in quelle più empiriche come la sociologia e la scienza politica, viene ripetuta e trasmessa una concezione dogmatica dell’organizzazione sindacale.

Intellettuali di spicco appartenenti a questi campi - pensiamo a Pierre Macherey, Pierre Bourdieu e Colin Crouch (solo per limitarci a rappresentativi esempi internazionali), per i quali la ricerca scientifica non solo non si riduce all’amministrazione di un sapere specialistico ma è inseparabile dall’impegno pubblico - in più di una circostanza, trovandosi ad analizzare i disastri sociali causati dal neoliberismo, hanno pensato al sindacato come a un attore in grado di salvarci dall’incubo nel quale siamo caduti. Un sindacato concepito in modo astratto, astorico, completamente privo delle differenze che lo caratterizzano tanto al suo interno quanto all’esterno nelle relazioni con le altre parti sociali.

Portatori di una visione critica dello sviluppo capitalistico degli ultimi trent’anni, questi intellettuali in sostanza non hanno indirizzato le loro critiche al sindacato, come se quest’istituzione fosse passata indenne attraverso la rivoluzione conservatrice neoliberista, e non ne avesse avuto ruolo alcuno.

Anche se brevemente, questa situazione merita di essere analizzata visto che gli intellettuali pubblici a cui facciamo riferimento, con i risultati delle loro ricerche concorrono, al pari di tutti i media di comunicazione, a definire e classificare la realtà nella quale viviamo, definizioni e classificazioni con le quali poi orientiamo le nostre idee, le nostre sensibilità e le nostre azioni.

Solo pochi esempi. In un testo del 1998, il sociologo Bourdieu ipotizzava la formazione di uno Stato sovranazionale, europeo prima e mondiale poi, capace di controllare i profitti del capitale finanziario, e riteneva necessario, per il buon fine dell’operazione, l’“aiuto dei sindacati”, soprattutto per ciò che riguardava la tutela del mercato del lavoro (“Controfuochi”, Reset, Milano 1999).

In un saggio del 2012 su Foucault e Marx, così scriveva il filosofo Macherey a proposito della lotta del lavoratore contro l’autorità padronale presente nel processo produttivo: “Questa lotta e questa opposizione (…) devono essere assunte dalle associazioni dei lavoratori, soprattutto da quelle che oggi chiamiamo sindacati, che ne organizzano le manifestazioni e le sottomettono (…) a piani d’insieme sempre più concertati e coordinati” (“Il soggetto produttivo”, Ombre corte, Verona 2013).

Infine anche uno scienziato politico come Crouch, più avveduto degli altri sull’evoluzione del sindacato nell’era della postdemocrazia, arrivava a tesserne l’elogio quando questi riusciva a mettere in campo strategie che non lo relegasse ai margini delle questioni occupazionali: “I sindacati italiani lo hanno dimostrato nei primi anni Novanta, quando il loro sostegno all’ingresso dell’Italia nella moneta unica europea come fattore politico d’interesse generale li ha spinti ad accettare una grande riforma pensionistica” (“Postdemocrazia”, Laterza, Roma-Bari 2003).

In realtà, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso il sindacato, in quanto principale organizzazione dei lavoratori, non solo è stato l’obiettivo primario della controffensiva capitalista dopo la caduta del muro di Berlino, ma da quel momento in poi, in perfetto accordo con lo spirito di tutte le sinistre europee, ha seguito una deriva difensiva che gli ha fatto adottare quei terreni e quelle forme di lotta più consoni al neoliberismo. In questo senso una critica socio-politica del neoliberismo che esenti il sindacato ci suona molto problematica, non fosse altro perché fuori dalla storia.

Ora, ben oltre la sublimazione, in che termini ci aspettiamo che gli intellettuali formulino il loro rapporto con il sindacato negli interessi dei lavoratori? Criticamente, ritornando semmai a rivedere i risultati raggiunti in precedenza, e materialmente, ossia con l’elaborazione di una piattaforma riflessiva fatta di idee, problematizzazioni, prospettive, pratiche che guardino alla crisi del sindacato, scandita dalla annosa inesorabile riduzione internazionale del tasso di sindacalizzazione, per risolvere con essa anche quella della società attuale.

Nel primo caso, pensiamo di nuovo a Crouch e al suo recente “Combattere la postdemocrazia” (Laterza, Roma-Bari 2020) nel quale l’autore, a distanza di una ventina di anni dallo studio che abbiamo citato, torna sulla questione sindacale, questa volta con strumenti critici più affilati, uno fra tutti, l’indebolimento della contrattazione centralizzata, riconosciuto come causa dell’aumento delle disuguaglianze e del prepotente rafforzarsi del capitale.

Ora, di sicuro non giova al sindacato ritenersi estraneo a questa dinamica ed eludere una seria analisi delle relative corrispondenze presenti nella contrattazione di secondo livello, anche di quella odierna. Sostenere che la “tendenza dei politici ad allentare i propri legami con la massa dei propri sostenitori, e a preferire il rapporto con le èlites …” non abbia contagiato, o perlomeno colpito di riflesso le organizzazioni sindacali, è illusorio.

La lunga stagione neoliberista, nella quale i partiti della sinistra si sono distanziati dalla loro base identitaria, e che ha visto lo Stato prima ritirarsi, con le grandi privatizzazioni, dal ruolo di regolatore attivo della politica economica, e successivamente cedere il welfare a player privati, interroga profondamente l’azione sindacale legata a quei contesti.

Gli scambi di prospettiva, gli accordi, la “forte tentazione di mettersi sulla difensiva e di aggrapparsi a ciò che si ha” e che si ritiene di poter utilizzare come materia di scambio in un circolo vizioso di ribassi è, onestamente, irrefutabile, ed ha probabilmente condizionato parte della cultura organizzativa sindacale a ritenere ineluttabili alcuni compromessi.

Nel secondo caso, quello relativo alla definizione di una piattaforma, possiamo fare riferimento al lavoro che da anni svolge in Brasile un sociologo come Ricardo Antunes, dalle cui ricerche sulla crisi del sindacato (“Addio al lavoro?”, Ca’Foscari, Venezia 2015) possiamo tentare di abbozzare un programma per pensare a un sindacalismo orizzontale, nemico del corporativismo delle categorie, e di una burocratizzazione da apparato di potere la cui funzione principale è quella di riprodurre gli assetti dominanti all’interno dell’organizzazione.

 

Un sindacalismo inclusivo; un sindacalismo che sappia scegliere i problemi da risolvere non dall’agenda del capitale ma da quella imposta dai bisogni della riconquistata e ritrovata classe sociale dei suoi iscritti. Un sindacalismo, infine, non più difensivo, che ha subito e per certi versi avallato il progressivo smantellamento del welfare state, ma finalmente combattivo, il cui orizzonte politico può tornare a essere il superamento del capitalismo, e non più una rassegnata cogestione volta a limitarne i danni.

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