Un governo che non ci rappresenta - di Giacinto Botti e Maurizio Brotini

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Mentre scriviamo non conosciamo l’esito della crisi. Possiamo comunque fare alcune considerazioni. Ignorando l’articolo 94 della Costituzione, si sono provocate le dimissioni di un governo che aveva ricevuto la fiducia delle Camere. Merito del cinico disegno politico di Renzi d’Arabia, che aveva l’obiettivo – fin qui raggiunto – di rompere l’alleanza Pd-5 Stelle-Leu per consegnare la gestione del Recovery Plan alla destra, o comunque a un governo più prono ai desiderata di Confindustria e della finanza internazionale.

Il presidente della Repubblica ha incaricato Mario Draghi, sulla cui investitura era in corso da mesi una ben congegnata campagna mediatica. Il governo “che non debba identificarsi con alcuna formula politica” richiama a tutti noi l’esperienza ben nota del governo Monti. Per tutti i lavoratori il governo Monti è stato quello della controriforma Fornero. Sono ancora sanguinanti le dolorose ferite lasciate da quella infausta stagione tra lavoratori e pensionati, e nello stesso rapporto di fiducia non solo verso i partiti ma anche verso il sindacato.

In una democrazia parlamentare non esiste un governo “tecnico”. I governi sono sempre politici, votati in Parlamento. Qualsiasi governo interviene con scelte politiche, economiche e sociali che hanno un indirizzo e fanno riferimento a determinati interessi.

A noi spetta il dovere di mantenere forte la nostra autonomia con un costante richiamo alle nostre proposte, elaborazioni strategiche, piattaforme, e alle nostre scelte congressuali. Ma soprattutto alla nostra idea di società e di futuro, al bisogno di radicale discontinuità dal passato. Di richiamarci costantemente agli interessi di parte che rappresentiamo, e ai bisogni e diritti del mondo del lavoro.

Ci sottraiamo al coro assordante del “viva re Draghi”,“salvatore della patria”. Un coro ideologico e ipocrita che sovrasta e omologa tutto e tutti, e che abbiamo già conosciuto in passato con Ciampi, Dini e Monti. Abbiamo una sana diffidenza, anche perché non dimentichiamo che Draghi, tra l’altro, è stato fra i padri ideologici della stagione delle privatizzazioni, un convinto liberista e uomo designato dalla grande finanza internazionale.

Tutti i governi guidati da “tecnici” - dal governatore Ciampi con le politiche fallimentari dei redditi e gli accordi di concertazione, a Dini fino a Monti - si sono rivelati governi che hanno favorito il capitale, l’impresa e il profitto. Il mondo del lavoro, i ceti meno abbienti, le donne e i giovani, con i governi di “unità nazionale”, “del presidente” o dei cosiddetti “tecnici”, hanno sempre pagato le crisi economiche e politiche di questo Paese.

Siamo in una crisi di sistema e della rappresentanza, e non possiamo permetterci di alimentarla con un governo che non dovrebbe identificarsi “con alcuna formula politica”. I partiti, il Parlamento, le istituzioni rappresentative sarebbero svuotate e la politica, già poco rappresentativa e lontana dal paese vivo e reale, darebbe spazio nel sentire comune all’idea fallace che per uscire dalla crisi ci vuole un governo “dei tecnici”, guidato da un uomo forte.

Noi non la pensiamo così. Non ci arrendiamo al presente. Saranno il Parlamento e le forze politiche a decidere. Ma il sindacato non può dare carta bianca a nessuno. Siamo consapevoli che il ricorso alle urne potrebbe essere un salto nel buio, ma il voto è un diritto costituzionale del popolo sovrano, da esercitare quando non si trovano le possibili soluzioni politiche.

E’ bene ricordare alle forze politiche progressiste e di sinistra che il loro futuro – e il loro consenso, anche elettorale - si gioca oggi dentro a questa crisi, su chi la pagherà, su come se ne uscirà e se saranno fatti quegli interventi radicali che segnino il cambiamento necessario al Paese, al mondo del lavoro e dei pensionati.

Il futuro governo si aprirà a destra, parlerà con più attenzione ai poteri forti del Paese, Confindustria in testa, e guarderà ai bisogni del mercato, agli interessi della grande e piccola finanza, muovendosi nel solco liberista. Dobbiamo mantenere la nostra autonomia, e mobilitarci per quanto abbiamo definito e convenuto con le lavoratrici, i lavoratori e i pensionati.

Avevamo già avvertito, facili profeti, che nella situazione data un nuovo governo sarebbe stato in ogni caso un governo spostato a destra. Ancora una volta, alla crisi politica del Paese, una classe dirigente che si identifica negli interessi dei capitalisti e della finanza vuole rispondere con una politica che ignora – se non come pretesto – i drammi di milioni di cittadini poveri (5 milioni) o impoveriti (8 milioni); la paura per il futuro di centinaia di migliaia di lavoratori che rischiano il posto di lavoro; il dramma quotidiano di chi si arrabatta tra lavoro nero e precarietà. Mentre incombe ancora un’epidemia che non si riesce a tenere sotto controllo e a sconfiggere, e stenta a decollare la campagna di vaccinazione.

Come con Monti, si individua in un “tecnico” del sistema finanziario il garante non dei diritti ma della stabilità. Invece di ricostruire un sistema pensionistico solidale e che guardi ai giovani e ai discontinui, si abolirebbe “quota 100” senza istituire un equo sistema di pensionamento flessibile; invece di riformare ed estendere il reddito di cittadinanza, costruire un sistema universale di ammortizzatori sociali e ridare vigore al collocamento pubblico, si cercherebbe di ridurne la portata e di lasciare mano libera alle imprese, come puntualmente preteso da Confindustria. Invece di una patrimoniale si vorranno tagliare indistintamente tasse e contributi, tornando alla logica di meno Stato e più mercato.

La Cgil si troverà dinanzi a un governo con il quale sarà più difficile ottenere quanto indicato nelle nostre piattaforme: la necessità assoluta di discontinuità e cambiamento. Purtroppo le sorti del governo non sono nelle mani del movimento operaio. Non ci sono in Parlamento forze politiche che mettano al centro della loro politica gli interessi materiali, il punto di vista, le aspirazioni sociali di quanti vivono del proprio lavoro. E’ il prodotto, grave, della crisi di quella che fu la sinistra italiana con i suoi partiti di massa.

Il sindacato confederale, con il suo radicamento sociale, il peso organizzativo, il suo apparato di migliaia di funzionari nelle strutture sindacali e nei servizi, la rete di decine di migliaia di delegati, è tutto ciò che resta di vivo e operante di quella storia. L’unico modo di stare dentro la crisi della politica, per la Cgil, è di tenersi forte la propria autonomia, rifuggendo dal richiamo – avanzato da più parti – a nuovi patti “sociali” o concertativi. Tutt’altro della conquista del necessario confronto per imporre che il Piano di ripresa e resilienza contenga obiettivi chiari e verificabili di nuova occupazione, stabile e di qualità, prima di tutto grazie all’intervento diretto pubblico nei settori strategici, nella riconversione ecologica, e nella pubblica amministrazione.

Proroga del blocco dei licenziamenti e degli sfratti, ammortizzatori universali, contratti di lavoro, riduzione e redistribuzione degli orari di lavoro, nel quadro delineato dal Piano del Lavoro e dalla Carta dei Diritti, da tempo proposti dalla Cgil, sono i terreni su cui la nostra confederazione deve misurare qualsiasi governo, mettendo subito in campo – nonostante le difficoltà dovute alla pandemia – i necessari livelli di mobilitazione e conflitto.

Saremo giudicati – come sempre – per la nostra capacità e coerenza nel rappresentare i bisogni e i diritti di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, giovani precari e in cerca di lavoro. Con il senso di responsabilità di un sindacato generale che guarda al bene comune a partire dalle persone che rappresenta, che sono l’asse portante della democrazia e del benessere del Paese.

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