Paesi del Golfo. Morte e repressione dietro i grandi eventi sportivi e commerciali - di Vittorio Bonanni

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Ormai sono completamente sdoganati. Grazie alla loro immensa ricchezza che porta a un potere attrattivo nei confronti di un mondo occidentale in crisi, organizzare grandi eventi internazionali nei cosiddetti Paesi del Golfo è diventato un dato che nessuno mette più in discussione. Da Dubai, che ospita in questi giorni l’Expo, al Qatar, dove il prossimo anno si svolgeranno i mondiali di calcio, fino a manifestazioni culturali e sportive minori, molte delle quali in Arabia Saudita, queste nazioni sono diventate luoghi di eventi che producono soldi a palate, senza prendere minimamente in considerazione cosa succede dietro le quinte degli skyline di Ryad, Abu Dabhi o Doha.

E’ noto che questi paesi non brillano per rispetto dei diritti umani e dei lavoratori impegnati a costruire mega grattacieli e infrastrutture per le varie kermesse. Eravamo già a conoscenza delle gravi discriminazioni subite dalle donne, con la stessa possibilità di guidare un’automobile diventata una grande conquista. Oppure di certi reati puniti con la lapidazione, le frustate, e altri metodi non diversi da quelli usati dai vicini talebani. Anche il trattamento riservato ai dissidenti politici, che va dall’eliminazione fisica - ricordiamo tutti il caso dell’oppositore Jamal Khashoggi, entrato nel consolato saudita a Istanbul e uscito fatto a pezzi dentro una valigia – fino alle numerose detenzioni arbitrarie.

Ma l’inferno peggiore lo patiscono i lavoratori immigrati provenienti dai più poveri paesi asiatici, quali Pakistan, India, Bangladesh, Nepal. Nelle diverse patrie del petrolio sono milioni, circa l’80% della popolazione locale, i disperati che arrivano per inviare le cosiddette rimesse ai propri familiari, come succede per gli immigrati di tutto il mondo. Le condizioni di vita per chi varca le frontiere sono difficili, ma nel Golfo tutto è amplificato. Il passaporto viene confiscato all’arrivo, si lavora anche dodici ore al giorno con temperature che arrivano a sfiorare i 50 gradi e le case, in realtà baracche, dove vivono sono fatiscenti e prive di qualsiasi climatizzazione, presente invece ovunque negli uffici e nelle abitazioni degli autoctoni e di chi arriva dall’Occidente per lavoro o per turismo. Condizioni di vita ovviamente peggiorate con l’arrivo della pandemia che ha provocato anche una preoccupante recessione.

Non è complicato trovare un annuncio di lavoro. È sufficiente navigare su internet e cercare ciò che segnala, per esempio, “Job’s in Dubai”. Come “cercasi urgentemente addetti nel settore dell’edilizia. Stipendio 1.000 aed per 12 ore di lavoro quotidiane”. L’aed (arab emirate dirham) è la moneta degli Emirati, e quel salario equivale a circa 250 euro, tutti o quasi spediti alle famiglie con il risultato di non avere il minimo necessario per tirare avanti, considerato che in quei paesi il costo della vita è più alto del nostro.

Questa situazione ha portato ad aggravare un fenomeno di criminalità, fatalmente nata all’interno di una situazione di gravissimo disagio sociale. Si sono anche verificati scontri tra gruppi di immigrati che si contendevano somme di denaro, con tanto di morti e feriti.

La confisca del passaporto di chi arriva da fuori per lavorare, “kafala”, ovvero il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore che prevede la permanenza obbligatoria nel Paese ospitante, è una gravissima violazione dei diritti della persona. Se qualcuno decide di tornare in patria scatta immediatamente il reato di “fuga”, punito con multe ma anche carcere ed espulsioni. Insomma siamo di fronte ad una forma di schiavitù che resta incontrastata, vista l’assenza di sindacati e di qualsiasi altra forma di protezione.

Proprio dal Qatar, che ospiterà i prossimi mondiali di calcio, arrivano i dati più drammatici. Secondo fonti ottenute da “The Guardian”, riportate da “Internazionale”, dal 2011 al 2020 sono morti 5.927 lavoratori. Ma l’ambasciata del Pakistan a Doha riferisce di altri 824 lavoratori pachistani morti in dieci anni. Denunce peraltro formulate da tempo dalla Federazione mondiale dei lavoratori delle costruzioni (Bwi) e dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (Ituc). “Dietro le statistiche – scrive il quotidiano britannico - si nascondono storie di famiglie devastate dal lutto, rimaste senza la loro principale fonte di reddito, in lotta per ottenere un risarcimento, e confuse riguardo alle circostanze della morte dei loro familiari”.

E’ un quadro che suscita indignazione. Con nessuno, tranne qualche rarissima eccezione, vedi la nazionale norvegese di calcio, che si sia minimamente posto il problema di boicottare questo scenario di morte, imponendo la scelta di un altro luogo dove realizzare questa competizione sportiva. Anzi. Per il 2030 già si parla di Israele ed Emirati come luoghi per ospitare la massima kermesse calcistica mondiale. Questi morti non interessano a nessuno. E quando inizierà il mondiale tutti saranno lì davanti la televisione a tifare per la propria nazionale. Come avvenne, mutatis mutandis, con l’Argentina dei militari nel 1978.

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