La Cgil è il sindacato generale del Noi - di Giacinto Botti

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Intervento all’Assemblea Organizzativa, Rimini 11 febbraio  

Care compagne, cari compagni, dopo la triste notizia data dal presidente Martini su due gravi incidenti sul lavoro, dopo 1.400 morti nel 2021, forse non dovremmo più parlare di infortuni ma di assassinii, perché esistono colpe e colpevoli.

Detto questo, ritengo questa importante assemblea organizzativa un’occasione da non sprecare per confrontarsi con il Paese reale, per guardare l’orizzonte e non la nostra ombra. Un momento per ripensarci, innovarci guardandoci dentro senza rimozioni.

La nostra organizzazione ha radici profonde, un patrimonio di saperi e di esperienze che vanno valorizzati e non dispersi. Siamo un punto di riferimento per dare voce e risposta alla crisi di sistema, al malessere che attraversa il mondo del lavoro e la società, alla sofferenza della pandemia e delle emergenze sanitarie, economiche e sociali che stanno colpendo duramente i ceti più popolari.

L’Italia, rispetto alle altre economie europee, segna gravi differenze e diseguaglianze sociali, economiche di ceto e di genere. I dati esposti dalla direttrice dell’Istat, Linda Laura Sabbadini, sono significativi quanto preoccupanti. Questa deriva chiama alle proprie responsabilità dirette e indirette il governo, la politica, i partiti e il Parlamento, ma deve interrogare anche noi.

Cinquantacinque applausi fuori misura per il discorso di insediamento del Presidente della Repubblica, che ha elencato quanto noi chiediamo da tempo, e che lo stesso governo e Parlamento hanno mancato di fare. Si sono lavati la coscienza e si sono assolti senza vergogna: quegli applausi grondavano falsità e ipocrisia. Questo non è un Parlamento di innocenti. Applaudono la dignità e l’hanno tolta a chi lavora, cancellando l’articolo 18.

Dobbiamo rilanciare con forza la nostra Carta dei Diritti, il nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori. E, dinanzi ai pericoli di guerra, il Presidente bis Mattarella dovrebbe dire ciò che disse nel discorso di sette anni fa: “L’Italia ripudia la guerra”. E magari dire che la circolare del ministero dell’Istruzione, in cui si equipara la tragedia delle foibe con il genocidio e la shoah, è storicamente demenziale e vigliacca.

Il paese reale continua ad essere fuori dal palazzo, mentre aumenta la disaffezione, la distanza tra cittadini e istituzioni. Il nostro sciopero generale del 16 dicembre per il lavoro è stato giudicato, con disprezzo irresponsabile, inutile, sia da parte dei partiti di governo che di Confindustria. E pure da qualche ex dirigente della Cgil.

Noi quel giusto sciopero lo dobbiamo valorizzare, e riprendere l’iniziativa dandole coerente continuità, con la nostra proposta e una rinnovata autonomia dai governi e dai partiti. Siamo un sindacato confederale e non corporativo, forte di un’autonomia programmatica e teorica. Il merito e la prospettiva sono e rimangono i nostri riferimenti. Noi vogliamo ricostruire il paese dal basso, insieme alla parte migliore. Siamo realisti consapevoli ma non rassegnati o piegati alla realtà, e sappiamo che non ci regalerà niente nessuno: dal governo del liberista Draghi, “dei migliori”, dell’uomo solo al comando e dai partiti che lo compongono, non dobbiamo attenderci veri cambiamenti. Non è più tempo per il “meno peggio” o per il “bicchiere mezzo pieno”: tra poco non ci sarà più neanche il bicchiere. Dalla crisi si esce da destra o da sinistra.

Questo arretramento valoriale riguarda anche noi, per questo dobbiamo attivare gli anticorpi forti di cui disponiamo. Possiamo migliorare l’organizzazione se quanto di significativo è stato indicato nelle schede sarà applicato, se sapremo mettere a terra quanto deciso, con coerenza e costante verifica dei percorsi indicati e dell’operato dei gruppi dirigenti. Ognuno deve assumersi la responsabilità che gli compete, con senso di appartenenza a un’organizzazione generale, democratica e plurale che si fonda sulla partecipazione e la contrattazione. Noi siamo e dobbiamo rimanere il sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati.

La Cgil è proprietà delle iscritte e degli iscritti, non proprietà individuale di dirigenti eletti pro tempore a ricoprire dei ruoli; non ha bisogno di uomini soli al comando, e neppure di certi segretari generali che esercitano il loro ruolo con senso proprietario. La distanza tra quanto diciamo e scriviamo, e quello che realizziamo, è il segno preoccupante delle nostre difficoltà, della burocratizzazione ramificata, della perdita di confederalità.

La Cgil è un sindacato generale del NOI, non dell’IO. Il radicamento passa principalmente dai luoghi di lavoro e dal territorio, dall’incontro dei bisogni e della condizione sociale del lavoratore - cittadino, dall’azione confederale generale e contrattuale delle categorie, dalla ri-sindacalizzazione, dalla formazione continua, anche valoriale, del gruppo dirigente diffuso, a partire dalle delegate e dai delegati.

Abbiamo bisogno di aprirci, di ascoltare, di contaminarci, non di chiuderci nel palazzo, in riunioni ristrette dove non filtra a sufficienza la realtà che dobbiamo rappresentare. Occorre mettere a disposizione di tutta l’organizzazione l’informazione e la circolarità dei contenuti del confronto, sempre. La comunicazione è centrale. E poi valorizzare, formare e scegliere i gruppi dirigenti per esperienza, qualità e attitudine, dando spazio a chi si è formato ed è cresciuto nei luoghi di lavoro, a contatto con i problemi di chi lavora: scuola fondamentale per chi vuole fare il sindacalista - che non è un lavoro come gli altri, ma una scelta di vita che presuppone un agire verso gli altri carico di esperienza e di responsabilità.

Occorre passione, militanza, coerenza, etica e capacità di ascolto. E occorre bandire le logiche che premiano la fedeltà o magari la provenienza di partito, che nulla hanno a che fare con il rinnovamento, con le nostre regole democratiche, con il nostro pluralismo programmatico e di merito sindacale.

La Cgil, per conquistare il cambiamento, deve cambiare partendo da sé, dai suoi limiti e dalle sue storture, dalle sue burocratizzazioni e incrostazioni organizzative e politiche. Se vogliamo fare ciò che scriviamo nei congressi e anche in questa assemblea, dobbiamo partire da noi senza reticenze, con lealtà, senso di appartenenza e rispetto verso chi questa organizzazione l’ha, con sacrificio e militanza, costruita, conservata e migliorata, consegnandocela. Noi abbiamo il dovere di preservarla e migliorala per il mondo del lavoro di domani e per i suoi dirigenti futuri.

Questa organizzazione è così perché è viva, permeabile alla società e ai bisogni provenienti dai luoghi di lavoro, ricca di confronto e di scontro interno, di rispetto e di ricerca delle sintesi. Abbiamo bisogno di aprirci, dare spazio e ascoltare. Ascoltare vuol dire fare spazio all’interno di sé stessi alle ragioni dell’altro, riconoscerne il valore e la ricchezza. Ascoltare significa trarre esperienza e capacità dagli altri e crescere insieme.

Dobbiamo rispettare il dissenso, liberare il confronto da ogni forma di conformismo e di omologazione: i nostri iscritti, i nostri quadri, le delegate e i delegati non devono temere ritorsioni o discriminazioni per aver espresso liberamente le proprie opinioni. Un timore che blocca il dibattito negli organismi dirigenti e nei luoghi decisionali, il direttivo e l’assemblea, svuotandoli di ruolo e riducendoli a una funzione di ratifica di decisioni e indirizzi assunti tra gruppi ristretti, o nelle sempre più frequenti riunioni dei segretari generali, peraltro non previste dal nostro Statuto.

Le segreterie non devono divenire lo stato maggiore del segretario generale, ma espressione dei vari orientamenti, pensieri, idee presenti nell’organizzazione. Alle correnti di partito, superate da tempo, c’è il pericolo che si sostituiscano cordate di potere, aggregazioni sotterranee che non si formalizzano ma intervengono e condizionano l’attività e le scelte dell’organizzazione, sino alla costituzione dei gruppi dirigenti.

Le compagne e i compagni degli apparati, politici e tecnici, dei servizi e delle tutele individuali, che sono determinanti per la vita dell’organizzazione, non vanno demotivati riducendo le scelte a cerchie ristrette, mortificando energie e potenzialità preziose, ma vanno valorizzati. A ognuno va data la possibilità di dare il proprio contributo, di sentirsi riconosciuto.

Il numero di tessere, le risorse di cui dispone non possono attribuire a una categoria un potere sulle altre; vanno valutate le potenzialità e lo sviluppo dei settori e dei campi strategici di cui categorie anche piccole si occupano. Credo che sia questa l’essenza della confederalità, aiutare la Cgil nel suo insieme a crescere.

Questo sentire è comune alle tante compagne e compagni che si riconoscono nell’aggregazione di Lavoro Società per una Cgil unita e plurale, la sinistra sindacale all’interno della maggioranza, che anche in questa occasione ha contribuito al confronto con idee e proposte. Siamo da decenni una ricchezza plurale alla luce del sole e nelle regole statutarie. Non una cordata di potere alla ricerca di posti, come dice qualcuno che di cordate di potere se ne intende.

Ci sono slogan che rappresentano una storia di bisogni e di cambiamento, un’idea di società, parole d’ordine che restano attuali come “operai e studenti uniti nella lotta”, “lavorare meno per lavorare tutti”, “pagare tutti per pagare meno”. Riprendiamole, rilanciamole, c’è bisogno di dire ancora cose di sinistra. Questo le forze politiche progressiste devono capirlo, se vogliamo spostare l’asse di questo paese pericolosamente orientato a destra. Un paese in cui, per sentir dire qualcosa sul piano sociale, sul lavoro e lo sfruttamento, qualcosa di sinistra in sintonia con la Cgil, bisogna ascoltare Papa Francesco, e questo la dice lunga sullo stato deplorevole della sinistra politica italiana. E di quanto la nostra Cgil rappresenti, oggi più che mai, una risorsa insostituibile per questo paese. Viva la Cgil!

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