Alimentare pace e disarmo - di Tina Balì

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In questi giorni anche i media mainstream si sono accorti che la guerra in Ucraina porta con sé pesanti ricadute economico-sociali e sugli approvvigionamenti alimentari. Si è passati dal racconto delle atrocità belliche a quello della guerra del petrolio e del gas, e ora alla guerra del grano.

La guerra in Europa mette in allarme le economie di mezzo mondo, e inizia a ripercuotersi negativamente sulla vita quotidiana di decine e decine di milioni di persone a migliaia di chilometri di distanza. Ma i media ne parlano come di un ulteriore braccio di ferro tra potenze. Sembra che il pensiero e il ragionamento siano spariti dalla scena del dibattito e chi prova a farlo è iscritto nelle liste di proscrizione.

È di questi giorni la discussione sulle navi cariche di grano destinate al mercato africano, ed è in corso una estenuante trattativa fra Russia, Ucraina e Turchia. Ma quella stessa stampa non dice che solo la pace può evitare nuovi morti sotto le bombe, nuovi morti per fame e siccità, e milioni di persone costrette ad abbandonare i propri paesi a causa delle carestie.

Finalmente l’Onu, che finora non ha avuto molta voce, sta denunciando il rischio di una carestia globale e chiede corridoi sicuri per le navi commerciali ferme nei porti ucraini. Era ora!

La Flai ha subito sottolineato che le ricadute della mancata esportazione del grano russo e ucraino non si sarebbero ripercosse solo sull’Europa, ma in maniera molto più marcata sull’Africa, affamando ancora di più quel continente. I numeri della Fao sono eloquenti: Russia e Ucraina rappresentano il 30% del commercio globale del grano, il 55% per l’olio di girasole, il 20% per il mais che è cibo per gli allevamenti, il 32% del mercato dell’orzo. Prodotti che dai porti del Mar Nero raggiungono molti Paesi del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana. Inoltre la Russia è tra i maggiori produttori mondiali di fertilizzanti (circa il 15%).

Lo choc nelle filiere delle derrate agricole e dei fertilizzanti, insieme alla crisi energetica, legate alle sanzioni alla Russia, e le limitazioni logistiche dovute alla guerra, riducono la disponibilità di questi prodotti. In questo scenario si sono innestate dinamiche speculative che, unite all’aumento dei costi di trasporto, spiegano l’aumento vertiginoso dei prezzi, con rincaro di oltre il 50% per molti prodotti agroalimentari.

Per alcuni Paesi questa condizione non fa altro che peggiorare la situazione esistente. Non dimentichiamo che all’origine delle rivolte delle Primavere Arabe del 2010 e 2011, e nel 2019 in Sudan, vi sia stato l’aumento del prezzo del pane e dei carburanti.

Siamo di fronte a un’emergenza umanitaria nelle zone di conflitto, ma è essenziale mantenere alta l’attenzione su tutte le situazioni di elevata criticità, specialmente in Africa. Prima il Covid 19, ora la guerra mostrano la fragilità di un sistema globalizzato di produzione e consumo. È in atto il tentativo di soluzioni facili, di risolvere il problema con l’intensificazione produttiva di coltivazioni ad alto livello di impiego di energia fossile, concimi e altri prodotti chimici. Questa strategia, sostenuta da alcuni Paesi e da molte lobby del settore agro-industriale, comporterebbe un arretramento dalle politiche di transizione ambientale e sociale, dalle stesse linee guida della “Farm to Fork” dell’Ue, un piano decennale approvato nel 2020 che propone un modello produttivo che collega salute, ambiente, economia alla tutela della biodiversità.

Il conflitto fa saltare gli equilibri dei mercati internazionali: se in Europa la priorità è mettere fine alla dipendenza energetica dalla Russia, in molti Paesi africani la preoccupazione si sposta sulla sicurezza alimentare. Secondo la Fao, da 8 a 13 milioni di persone nel mondo potrebbero soffrire di malnutrizione senza le esportazioni di cibo da Ucraina e Russia.

Le cause di questa crisi nella crisi sono chiare: da una parte l’aggressione russa all’Ucraina, dall’altra la lunga fase di perseguimento di monocolture e di politiche di sfruttamento e di land grabbing, in virtù della globalizzazione dei mercati.

In questa preoccupante cornice la produzione agricola di piccola scala diventa ancora più centrale per la sicurezza alimentare in molti paesi dell’Africa, e tutte le iniziative per porre fine alla dipendenza dalla farina di grano sono da incoraggiare, continuando a sostenere i sistemi locali di produzione in una prospettiva di sovranità alimentare.

La complessità della situazione impone un salto di qualità nella nostra capacità di incidere in Italia, in Europa, a livello internazionale per riportare al centro una logica sistemica nell’affrontare i problemi di sicurezza e sovranità alimentare. E la pace è l’unica strada per disegnare un nuovo assetto geopolitico mondiale, che abbia al centro i diritti umani. Questo richiede il completamento del progetto federalista dell’Europa e un nuovo ruolo delle istituzioni internazionali, a partire dall’Onu.

Per questo il 18 giugno come Flai saremo in tanti e tante in Piazza del Popolo con tutta la Cgil, per la pace, il disarmo e la giustizia sociale.

 

 
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