25 Aprile e Primo Maggio nel solco della nostra Costituzione antifascista - di Giacinto Botti

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Tra il 25 Aprile e il Primo Maggio, due tappe costitutive della storia del nostro paese, corre un filo rosso che intreccia i valori di democrazia, di libertà, di pace e di giustizia. Attuali e “moderne” nel loro messaggio di speranza, rimandano a un ideale di giustizia sociale, all’uguaglianza dei diritti per tutte e tutti, ai valori di fraternità e solidarietà, parole impegnative da non relegare nel linguaggio buonista o consolatorio.

La Cgil, il sindacato unitario, rivendicano ciò che queste due date ancora rappresentano. Il 25 Aprile viene biecamente utilizzato nello scontro elettorale fra i due vicepresidenti del consiglio. Matteo Salvini, pronto a dare copertura politica alle formazioni neofasciste e razziste in Italia e in Europa, per giustificare l’assenza dalle celebrazioni per la Liberazione, sproloquia definendolo “un derby tra fascisti e antifascisti” in spregio alla Costituzione nata dalla lotta partigiana sulla quale ha indegnamente giurato. Luigi Di Maio, a capo di un movimento in crisi d’identità, si sente dalla parte dei partigiani il 25 Aprile, ma se ne dimentica tutti gli altri 364 giorni dell’anno, governando con un socio che, con la chiusura dei porti e la sua legge anti-immigrati, degna della peggiore destra sociale e politica, sta spingendo il paese verso una deriva anticostituzionale.

Il 25 Aprile il sindacato è in piazza per un’altra Europa, quella del lavoro, democratica e antifascista, contro l’Europa dei mercati, dei vincoli finanziari, dell’austerity, delle complicità nelle guerre di dominio, dell’indifferenza verso milioni di profughi che fuggono dai loro paesi ridotti alla miseria.

Siamo contro la globalizzazione della paura, dell’intolleranza, dello sfruttamento. Contro chi indica il capro espiatorio per legittimare la violenza e l’odio nelle periferie degradate, verso i rom, gli immigrati, i neri. “Prima gli italiani” diventerà “prima i lombardi”, “prima i veneti”, poi “prima i nostri”. Gli altri che anneghino in mare, nell’indifferenza.

Occorre fermare la spirale di violenza xenofoba. Rivendicare la disobbedienza civile contro leggi ingiuste: ribellarsi contro il degrado, la barbarie, la perdita di ogni sentimento umano è giusto. Altrimenti sarà la tomba della democrazia, che è incompatibile con le ideologie sovraniste e nazionaliste, razziste e xenofobe, e per la quale non esiste la “diversità” non integrabile. La democrazia per noi è luogo di incontro tra diversi, di eguaglianza nei diritti e nelle opportunità, di libertà di pensiero, di convivenza civile, di rispetto e parità di genere.

L’equiparazione tra antifascismo e anticomunismo, prima di Berlusconi e ora del “ministro della paura”, ha portato alla vergognosa banalizzazione del fascismo e dei crimini di cui si è macchiato. In questi anni, con l’ideologia dell’omologazione, si è tentato di far perdere senso e identità alle differenze fra destra e sinistra, permettendo vergognosamente di equiparare chi ha pagato con la vita per liberare l’Italia dal nazifascismo a chi l’ha fatto per difendere una violenta dittatura.

Il significato del Primo Maggio, festa internazionale del lavoro, è scritto nella storia del movimento operaio. Vietata dal regime fascista, ripristinata con l’avvento della Repubblica grazie alla lotta di Liberazione e agli scioperi del ’43, pagati con la deportazione di migliaia di lavoratori nei campi di concentramento, oggi è più che mai attuale nei suoi simboli e nel valore solidale.

Questo Primo Maggio dovrà cogliere la spinta di tanti giovani a battersi per il futuro del pianeta, consapevoli di essere a un bivio tra autodistruzione e impegno per fermare l’inquinamento, l’avvelenamento della terra, il surriscaldamento del clima. Battersi per la riconversione produttiva e per un modello di sviluppo sostenibile. Difendere il pianeta insieme al diritto al lavoro di qualità e con diritti, per la salute e la prevenzione contro le troppe morti sul lavoro, per un futuro migliore

Un Primo Maggio per ricordare al tempo stesso il ruolo della classe lavoratrice nella conquista della pace, della democrazia, della giustizia, dei diritti sociali e politici sanciti dalla Costituzione, in un’Italia e un’Europa che vedono avanzare la destra nazionalista, razzista e fascista.

La pace assume un valore dirimente in questa fase, nella quale è reale il rischio di un’escalation incontrollata del conflitto in Libia, con la corresponsabilità di tanti governi e l’inaccettabile inconsistenza di ruolo di mediazione politico-diplomatica dell’Europa e dell’Italia. Ecco perché va riaffermato l’impegno di sempre del movimento dei lavoratori nella lotta per la pace e per il disarmo.

Occorre riprendere una battaglia ideale e culturale per combattere l’indifferenza che pervade la società e le istituzioni, risalire la china valoriale, trasmettere alle nuove generazioni, a partire dalla scuola, la memoria storica e la conoscenza delle lotte di tanti per conquistare la democrazia e la libertà, i diritti sociali e civili nel lavoro e nella società. Nulla è acquisito per sempre, le conquiste vanno difese e allargate, come insegna la lotta delle donne contro l’oscurantismo e il maschilismo di ritorno. La Costituzione attende di essere pienamente attuata nei suoi principi fondamentali di giustizia e di democrazia sociale. A partire dal lavoro, valore fondante della Repubblica e diritto universale per ogni donna e ogni uomo.

Alla sinistra politica dispersa va richiesto di cambiare radicalmente politiche sociali ed economiche, alzando lo sguardo sul futuro. C’è bisogno di costruire ponti e abbattere i muri dell’intolleranza e delle diseguaglianze, per l’unità del mondo del lavoro, per la pace. Il 25 Aprile e il Primo Maggio sono all’insegna della nostra Costituzione repubblicana. La Cgil, come sempre, sarà in campo con le sue bandiere, la sua identità sociale e generale, il suo progetto per il futuro del paese.

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Come scrive lucidamente Alberto Negri su ‘il manifesto’, il governo italiano nella crisi libica ha fatto finta, per mesi, di non accorgersi di nulla, facendo credere che la soluzione fosse chiudere i porti. Con affermazioni fuori dalla realtà – la Libia è un porto sicuro – ora Conte, Salvini e Di Maio si trovano sotto ricatto del presidente che hanno riconosciuto, Fayez Serraj, che minaccia l’arrivo di 800mila profughi, non più migranti ma rifugiati di guerra. E devono solo sperare che fallisca la guerra lampo del generale Khalifa Haftar.

Intanto continua a salire il bilancio delle vittime. Ad oggi si registrano 240 morti, tra i quali 75 bambini, 42 donne stuprate e uccise, e 17 sanitari. Numeri che arrivano da una fonte di prim’ordine come Faud Aodi, presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi), e consigliere dell’Ordine dei medici di Roma, in contatto con i colleghi libici. I feriti sono ad oggi 1.400, tra i quali 300 minorenni, mentre fra i combattenti ci sono anche francesi, russi e americani.

Ancora, è salito a 27mila il numero degli sfollati, secondo dati Onu, e circa 1.800 bambini devono essere evacuati dalla prima linea del conflitto, mentre altri 7.300 sono già stati portati via. Nel complesso sono circa 500mila i bambini colpiti in tutta la parte occidentale del paese, avvertono l’Unicef e il rappresentante speciale del segretario Onu per i bambini e i conflitti armati.

In questo contesto, diventa sempre più urgente una presa di responsabilità umanitaria, senza tentennamenti e condivisa dall’Ue. “Basta con la politica della propaganda e degli slogan dei porti chiusi, servono soluzioni politiche e non teatrini muscolari contro i più deboli - avverte fra i tanti l’Arci - l’Italia e l’Europa non possono guardare altrove e far finta di nulla”. Invece sta accadendo proprio questo. Come al solito.

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Ora e sempre Resistenza - di Carlo Ghezzi

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Va ricordato e onorato l’impegno e il sacrificio delle e dei combattenti per la libertà, mentre continuiamo a contrastare ogni tentativo di rianimare la bestia fascista e razzista. 

La celebrazione dell’anniversario dell’insurrezione vittoriosa del 25 aprile del 1945 cade in un momento difficile per l’Italia, per l’Europa e per il mondo intero. Nel nostro paese ci troviamo a dover quotidianamente fronteggiare una recrudescenza di rigurgiti nazi-fascisti e razzisti promossi da Casa Pound, da Forza Nuova e da altre realtà, così come di iniziative di tante destre xenofobe, omofobe e antisemite che si sentono coperte dal ministro degli interni e dal clima di destra che spira in Italia. Invece di affrontare i problemi reali del paese, i nostri governanti sono tenacemente impegnati ad aizzare i penultimi contro gli ultimi e, tra l’altro, disattendono regolarmente l’applicazione della 12/a disposizione transitoria della nostra Costituzione, mentre diffondono i virus della violenza, della discriminazione, del razzismo e dell’odio contro il diverso.

Questo contesto ha una dimensione purtroppo mondiale, come evidenziano le vittorie elettorali di Trump e Bolsonaro, mentre proseguono guerre in Africa e in Medio Oriente e, nel nostro continente, i paesi di Visegrad e i sovranisti sono all’attacco in un’Unione europea che ha fatto del rigorismo e del liberismo i suoi tratti di fondo, anziché fare emergere un’Europa sociale e dei diritti delle persone. Un’Europa capace di portare la propria esperienza, fatta da un intreccio tra un forte sviluppo tecnologico e le protezioni sociali garantite dal welfare universale e solidale, come riferimento in un mondo sconvolto dal dilagare di una globalizzazione guidata solo dalla finanza.

Vogliamo un’Unione europea profondamente cambiata, che valorizzi il lavoro, la persona e la sua dignità, con un’altra politica economica; un’Europa sempre più forte, sempre più coesa, sempre più popolare. Vogliamo che dalle prossime elezioni esca vincitrice questa Europa e sia sconfitta l’Europa dei muri, delle barriere, dell’odio e delle discriminazioni.

Nelle ultime stagioni, dalle incursioni xenofobe avvenute a Como agli spari di Macerata, dai fatti di Ostia alle celebrazioni del centenario della nascita dei fasci, a mille altri episodi per giungere fino al Convegno mondiale delle famiglie di Verona, emergono le inerzie di troppe istituzioni (prefetti, questori, sindaci, ministri), mentre il Parlamento si prepara a promulgare leggi sul regionalismo che lacerano l’unità del paese, e strumenti demagogici che mettono in discussione la democrazia partecipativa.

Non possiamo non lanciare un allarme democratico. Siamo di fronte a un salto di qualità, a un cambio di fase in un paese storicamente a democrazia fragile, che ha attraversato tanti momenti difficili, e nella cui storia vi sono stati lo scelbismo, il governo Tambroni, il Piano Solo, il terrorismo nero e brigatista, le bombe della mafia e i momenti bui del berlusconismo. Dobbiamo prendere rapidamente atto del mutato contesto e comportarci di conseguenza, sapendo che abbiamo tre strumenti importanti per rispondere: l’unità popolare, l’antifascismo pacifico, e l’applicazione piena della Costituzione.

Gli antifascisti italiani sono tuttavia in campo, e i sentimenti che esprimono le grandi masse popolari sono solidi e si sono organizzate tante risposte importanti: dal 24 febbraio 2018 a Roma in Piazza del Popolo, ai 250mila di Milano del 2 marzo, fino alla recente bella manifestazione antifascista di Prato, con l’Anpi alla testa di un grande movimento pluralista e unitario.

Dobbiamo incalzare in Italia la destra costituzionale e antifascista a fare la propria parte, quella destra antifascista che in Francia come in Germania non rincorrerebbe mai i reazionari, scegliendo piuttosto di perdere le elezioni, mentre da noi si accoda abitualmente alle forze più retrive. Dobbiamo ricordare sempre che la Resistenza, e il Cln che la guidava, furono vincenti perché seppero tenere insieme i cattolici con i comunisti, i liberali con gli anarchici, i repubblicani con i monarchici, per contrastare insieme il nemico comune.

I combattenti per la libertà del 1943-45 sopravvissuti sono oramai pochi, ma il messaggio di coloro che in tante forme hanno guidato e sostenuto la Resistenza e ridato all’Italia la sua libertà e il suo onore è più valido che mai. Il loro impegno, come il loro sacrificio, va ricordato e onorato, mentre seguitiamo ad essere impegnati a contrastare qualsiasi tentativo di rianimare la bestia fascista e razzista.

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Il Def rivela la pessima salute della nostra economia - di Alfonso Gianni

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Si può dire che la parola chiave delle 164 pagine, oltre quelle introduttive, del Documento di economia e finanza (Def) sia “prudenza”. Già nella premessa il ministro dell’economia avverte che “le previsioni ufficiali sono e devono essere di natura prudenziale”. Il che significa che in fondo ha vinto la linea di Tria, la più filoeuropeista nel governo.

Nei giorni scorsi il ministro dell’economia era stato al centro di un tiro al bersaglio da parte dei due dioscuri governativi. Entrambi volevano che si presentasse un quadro ottimistico (d’altro canto Conte non aveva detto che l’anno 2019 sarebbe stato bellissimo?), ben consapevoli che l’esposizione delle cifre reali avrebbe suonato come una campana a morto per la politica economica del governo. Tria ha invece resistito a farsi imporre la solita operazione Matrix, quella cioè di coprire con una pellicola virtuale l’economia reale, convinto che il braccio di ferro con l’arcigna Commissione di Bruxelles non potesse essere fatto partendo con cifre truccate.

Per questi motivi il varo del Def è stato rapidissimo, solo una mezz’ora di consiglio dei ministri, ed è saltata pure la tradizionale conferenza stampa, quasi che si volesse nascondere il Def sotto il tappeto. E in effetti, sulla base delle cifre del Def, il governo “legastellato” ha ben poco da gioire. Solo nel gennaio di quest’anno i documenti ufficiali prevedevano una crescita di un punto percentuale di Pil. E già allora nessuno ci credeva. Ora questo risultato non è nemmeno previsto per il 2022, cui la tabella del Def accredita un triste +0,8%. Per questo 2019 si prevede una crescita limitata allo 0,2%. La differenza quindi tra il quadro tendenziale e quello programmatico, ovvero quello che dovrebbe includere gli effetti delle nuove misure varate dal governo, è minima, per l’esattezza pari a 0,1% in più.

E’ quindi chiaro che al ministero dell’economia nessuno crede alle virtù miracolistiche di incremento della crescita, né del cosiddetto reddito di cittadinanza, tanto meno di quota 100 (come farebbero infatti a spendere di più i “quotacentisti” se l’assegno pensionistico si abbassa?), ma neppure dei tanto decantati decreti “crescita” e “sblocca cantieri”, quest’ultimo giustamente ridefinito dalla Cgil “sblocca porcate”, visto che non farà altro che rendere ancora più insicuro un lavoro che è già causa di tanti morti. Né arrivano certo buone notizie per l’occupazione, visto che il Def prevede un aumento del tasso di disoccupazione dal 10,6% del 2018 all’11% del 2019, con tendenza peggiorativa per l’anno successivo.

In un quadro di questa natura il famoso deficit, oggetto di tanta contesa con Bruxelles nei mesi scorsi, è destinato a salire al 2,4%, ma non per un aumento della spesa in investimenti, quanto per l’assistenza all’accresciuta disoccupazione e per le minori entrate fiscali. A quest’ultimo riguardo il Def si mantiene vago su un punto che invece è decisivo per il governo, ossia la flat tax. Quando ne parla, dopo un fugace accenno nella premessa, lo fa in termini negativi, considerandola, assieme alla sterilizzazione delle clausole sull’Iva, come la causa di minori entrate per circa 47,5 miliardi nel triennio 2019-2021. In realtà è già in corso una controriforma strisciante del sistema fiscale, attraverso la moltiplicazione delle imposte sostitutive che smantellano l’Irpef. Ma naturalmente di questo il governo non parla.

Il Def ribadisce l’intenzione di non procedere ad aumenti dell’Iva. Ma allora il deficit 2020 non sarebbe del 2,1%, come dice il Def, ma almeno del 3,1%. Solo che allora l’inflazione diventerebbe pari all’1% (e non al 2% come dice il Def). Conseguentemente il rapporto tra debito pubblico e Pil non scenderebbe di 1,3 punti (da 132,6 nel ’19 al 131,3 nel ’20, come scrive il governo) ma al contrario salirebbe di un +0,7%. Insomma, anche con tutta la prudenza che Tria ci ha messo, i conti non tornano.

D’altro canto Tria insiste nella contrarietà all’introduzione di una tassa patrimoniale soggettiva, come ha riproposto recentemente Maurizio Landini, nella convinzione che non vi sarà bisogno di una manovra correttiva di sette o otto miliardi, che pare invece tanto più probabile quanto impopolare. Ma a guardare bene una correzione c’è: infatti la Legge di bilancio contiene una clausola che, in caso di deviazione dall’obiettivo di indebitamento netto, prevede il blocco di due miliardi di spesa pubblica. Sulla base di queste cifre il discostamento dall’obiettivo è ormai provato. Quindi, afferma il Def: “Il governo attuerà tale riduzione di spesa”.

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