Iraq: continua la rivolta pacifica e di massa dei giovani, nonostante la dura repressione - di Fabio Alberti

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Da oltre un mese e mezzo il movimento dei giovani iracheni è stato capace di mantenere le manifestazioni nell’ambito del movimento pacifico e della disobbedienza civile, allargando la base di consenso popolare e ottenendo il sostegno dei sindacati. 

Nella quasi completa indifferenza del mondo, centinaia di migliaia di giovani iracheni stanno occupando da 51 giorni le piazze del paese. Si tratta della più ampia, radicale e radicata protesta a cui si assiste in Iraq dopo l’invasione statunitense, per nulla inferiore alle più note rivoluzioni arabe. Ma media e politici occidentali, eccitati solo dai fatti di Hong Kong, sembrano non vederla.

Dopo l’ondata di proteste del 2017 si era formato un governo di coalizione con appoggio di sadristi e comunisti - la cui coalizione aveva vinto le elezioni - e la gente si aspettava che qualcosa cambiasse. Ma le cose non sono cambiate e nel frattempo, con la riconquista di Mosul, è stata dichiarata conclusa la guerra a Daesh, ed è venuta meno una giustificazione per lo stallo politico ed economico.

In Iraq il 60% della popolazione ha meno di 24 anni. La disoccupazione sopra il 20% e la corruzione assai diffusa fanno da sfondo alla mancanza quotidiana di acqua ed elettricità, e alla consapevolezza che oltre 450 miliardi di aiuti internazionali, e gli ingenti proventi del petrolio, sono stati ingoiati dal buco nero della élite, al potere grazie al sistema di quote settarie instaurata dall’invasione statunitense, e per mezzo della quale è cresciuta l’influenza iraniana sul paese.

La rivolta è iniziata il primo di ottobre, lanciata su facebook intorno alla mobilitazione dei giovani laureati che da qualche tempo presidiavano piazza Tahrir, la storica piazza delle proteste politiche a Baghdad. La manifestazione è cresciuta e ha cominciato a muoversi verso il ponte che conduce alla super protetta Green Zone. La polizia ha sparato lasciando sul terreno un primo manifestante. In breve tempo la rivolta si è allargata e diffusa nel sud del paese, nelle aree a maggioranza sciita, prendendo di mira tutto l’arco politico e religioso iracheno.

Nei primi giorni di mobilitazione sono stati assaltati oltre cento edifici sedi di partiti, milizie, uffici governativi. Più le manifestazioni si allargavano, più la repressione si faceva violenta. Già nella prima settimana i morti si contavano a decine. Sui tetti delle case sono apparsi i cecchini, squadre paramilitari hanno fatto irruzione nelle sedi delle televisioni per impedire la trasmissione delle immagini della repressione, sono iniziate le sparizioni di attivisti della società civile.

Ad un mese e mezzo di distanza sono rimaste sul terreno oltre 320 vittime, 12mila feriti, migliaia di arresti e decine di attivisti scomparsi. Ma nonostante la virulenza della repressione, e la mancanza di una direzione politica organizzata, il movimento dei giovani iracheni è stato capace di evitare la tentazione dell’escalation violenta, e a mantenere le manifestazioni nell’ambito del movimento pacifico di massa e della disobbedienza civile, allargando la base di consenso popolare, ottenendo il sostegno dei sindacati, costringendo gran parte dell’establishment a riconoscerne almeno formalmente le ragioni, fino ad incassare il gesto eclatante della nazionale di calcio che le ha dedicato la vittoria contro la squadra iraniana.

La rivolta non si è fermata nemmeno quando, con decisione precipitosa, il governo ha varato ben tre decreti di riforme economiche, formato una commissione per la revisione della Costituzione, promesso una nuova legge elettorale, arrestato qualche capo della polizia, avviato processi per corruzione e sciolto i governi regionali. Ma la piazza non si fida e chiede dimissioni immediate del Parlamento e del governo di Adel Abdul Mahdi, il primo ministro filoiraniano ma non malvisto a Washington. Dimissioni che non avvengono per l’esplicita opposizione iraniana.

L’ingerenza iraniana, oltre a quella statunitense, è quindi ora al centro delle contestazioni. Non è certo un caso se l’ayatollah Ali al Sistani, la più autorevole e ascoltata fonte religiosa sciita nel paese, che sin dal primo momento ha appoggiato le proteste, ha sentito il bisogno per tre venerdì di seguito di ammonire gli stati esteri a non interferire nel processo politico iracheno. Il timore è infatti che, come già successo in Siria, Iran e Stati Uniti approfittino della situazione per combattere anche sulla pelle del popolo iracheno il loro conflitto regionale.

 

Di fronte a questo enorme rischio, che la popolazione sta affrontando restando nelle piazze, e mentre si allargano le crepe nel sistema istituzionale iracheno ormai sull’orlo del collasso, la rivolta irachena avrebbe bisogno del sostegno che il resto del mondo sta facendo mancare.

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