Il vergognoso cinismo  di Confindustria - di Giacinto Botti

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Alla razza padrona non bastano le morti avute e che ancora abbiamo, le sofferenze prodotte, il dolore che corre nel paese, nelle famiglie, i tanti contagi tra le lavoratrici e i lavoratori, né i gravi pericoli ancora presenti per la vita e la salute delle persone. Avevamo denunciato l’irresponsabilità sociale di Confindustria nel ritardare la chiusura delle attività non indispensabili, l’arroganza di avocare a sé l’applicazione del protocollo conquistato dal sindacato.

Ora siamo oltre ogni limite. Con la richiesta di aperture anticipate delle attività produttive avanzata dalla Confindustria delle quattro regioni ad alta industrializzazione, non a caso tra le più colpite dalla pandemia, non per fatalità ma anche per una loro evidente corresponsabilità. Un cinismo e una superficialità fastidiosi, un’arroganza a difesa dei propri interessi e un disprezzo verso la scienza sui pericoli gravi di una prematura apertura di tutte le attività.

Oggi ci sembra persino più attuale il celebre slogan “Socialismo o barbarie”, coniato da Rosa Luxemburg più di un secolo fa. E giustificabile un moderno e democratico odio di classe nei confronti di una padronato che mette al primo posto il proprio profitto, e non la salute e la vita delle persone.

Non dimentichiamo nulla. Ricordiamo le ideologie nefaste promosse e realizzate in Europa e in Italia, il pensiero liberista fatto proprio dalla destra e non solo, che hanno prodotto il disfacimento dello stato sociale, le privatizzazioni selvagge, la svalorizzazione del lavoro, l’impoverimento sociale, valoriale ed economico del paese.

La pandemia ci ha trovati impreparati, diffondendosi in un paese già in sofferenza, con gravi limiti e conosciute ingiustizie e negligenze. C’è chi, non solo a destra, si è piegato per decenni al pensiero unico, in nome dell’individuo e del mercato, come solo misuratore del valore della persona e del bene pubblico, facendo proprie frasi come “la società non esiste, esistono gli individui” della Thatcher o “ lo Stato non è la soluzione, ma il problema” di Reagan. Da lì è scaturito l’attacco allo stato sociale, alla scuola, ai trasporti, ai beni comuni, alla sanità.

Per noi il bene comune va anteposto all’avidità, all’arbitrio e alla violenza dei più forti. La pandemia ha frantumato dogmi, teorie e certezze, evidenziato che l’individualismo e il qualunquismo non ci proteggono ma ci espongono alla sofferenza, alla solitudine e al rischio più letale: la morte.

Qualcuno, magari anche gli evasori, riscopre ora il valore dello stato sociale, della sanità pubblica, del posto letto in corsia e del prezioso, indispensabile e generoso lavoro svolto dai medici - oltre 100 morti - dagli infermieri e dagli operatori socio sanitari - oltre 30 deceduti. Lavoratrici e lavoratori che pagano un prezzo inaccettabile nello svolgimento del loro prezioso, generoso lavoro, sfiniti e infettati, mandati in trincea senza adeguate protezioni, definiti oggi, con una retorica insopportabile, eroi da parte di chi dovrebbe vergognarsi per ciò che ha fatto o omesso.

Non si può chiedere la vita a chi svolge il suo lavoro, a nessuno, a partire da quelle lavoratrici e quei lavoratori, inclusi i migranti, che producono i beni essenziali per tutti a rischio della loro vita e salute.

Affrontare questa fase non è facile per nessuno. Neppure per la Cgil che sta attualizzando la sua strategia mentre risponde ad un’inedita crisi sociale. Le conseguenze saranno pesanti e la strada della ricostruzione lunga e per nulla facile. Nulla sarà come prima. Ma ne usciremo bene solo se avremo un paese diverso, una società migliore, un’Europa e un mondo diversi. Dipenderà anche da noi, dalla capacità di creare cultura, partecipazione e sostegno alle nostre rivendicazioni, alla nostra idea di società, di visione del mondo, di progresso e di futuro. Uno scontro generale che possiamo sostenere solo con una forte e innovata confederalità.

Per questo, in una situazione inedita, stiamo riorganizzando anche il nostro modo di fare sindacato a distanza. Non dobbiamo far venire meno le nostre regole democratiche, il ruolo degli organismi dirigenti. Occorre coinvolgere e tenere insieme tutto il gruppo dirigente per ripensare come fare sindacato e contrattazione, tenere la nostra rappresentanza e il rapporto con i lavoratori, avendo l’attenzione di organizzare, proteggere e sostenere chi oggi è in prima linea, le delegate e i delegati. Insieme ne usciremo.

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25 Aprile: dalla Resistenza alla ripartenza - di Carlo Ghezzi

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#iorestolibero, per la festa della Liberazione una piazza virtuale.

Il 25 Aprile è il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale ha proclamato lo sciopero generale insurrezionale e l’Italia è rinata e ha riconquistato la sua libertà e il suo onore. Con la conclusione vittoriosa della lotta di Liberazione, condotta dal Cln con un forte carattere unitario, è stata definitivamente sconfitta l’oppressione nazi-fascista sui nostri territori.

Il 25 Aprile rappresenta la data fondativa della nostra democrazia e le forze antifasciste, unitamente con le istituzioni, sono come sempre da quel giorno in prima fila per celebrare adeguatamente questa ricorrenza. Le radici della nostra Costituzione affondano nella Resistenza, e per questo è necessario alimentare la memoria attiva e tenere aperto il ponte con le nuove generazioni. Questo è il modo migliore per onorare e ringraziare i partigiani e le partigiane per tutto ciò che hanno fatto. Perché costoro in montagna, tra mille difficoltà mentre combattevano contro l’esercito più forte del mondo, sognavano un mondo migliore.

Purtroppo il giuramento dei resistenti di tutta Europa, che venne pronunciato nella primavera del 1945, “mai più guerre, mai più razzismi” e i cardini della Dichiarazione fondamentale dei diritti dell’Uomo che è stata approvata dall’Onu nel dicembre del 1948, che auspicavano di poter risolvere ogni possibile conflitto con gli strumenti della diplomazia e della politica, non hanno avuto riscontro reale in un mondo che ha continuato a vedere lo scatenarsi di sanguinose guerre e il diffondersi di razzismi, di xenofobie, di violenze e di intolleranze.

Le cronache e gli avvenimenti di questi giorni ci impongono di abbandonare l’idea che il 25 Aprile, che ricorda quest’anno il 75° anniversario della Liberazione, sia celebrabile secondo le modalità consuete. Gli strumenti obbligati per riproporlo diverranno fondamentalmente i social, le televisioni e la stampa. Il tema da affrontare, insieme alla memoria di quanto accadde allora, non potrà che essere quello della “festa della ripartenza” dalla angosciante situazione provocata dall’epidemia che ha colpito il paese. Della ripartenza di un popolo che resta e resterà unito attorno alle radici della democrazia e della convivenza civile: antifascismo, Resistenza, Costituzione.

Andrà riproposta la coralità di una tradizione di lotta per i fondamentali diritti civili e democratici con una ispirazione robusta che si esprimerà con gesti pubblici che non potranno che essere poco più che simbolici per la drammatica situazione che stiamo vivendo. Una coralità che si esprimerà con un evento più strettamente popolare teso a coinvolgere tutta la cittadinanza, in un’ora precisa della giornata, con la messa in atto di un grande flash mob che si concretizzerà con l’esposizione di bandiere ai balconi delle case e con il canto corale di “Bella Ciao”.

Andrà attivato tutto ciò che potrà permettere al 25 Aprile di non passare sotto silenzio ma che gli consentirà di avere uno sviluppo nazionale adeguato per questa ricorrenza che lo renda capace di parlare all’Italia. Oggi essere partigiani significa prima di tutto tenere sempre ferma la barra della Costituzione e della sua piena applicazione. Vuol dire stare dalla parte del lavoro e della pace in Italia e nel mondo intero.

Ringraziando vivamente tutti coloro che si prodigano per permetterci di uscire dalla drammatica pandemia che è in corso, a partire dai medici e dal personale ospedaliero per terminare con coloro che operano nei servizi essenziali, siamo coscienti che si potrà uscire dall’attuale complessa situazione sanitaria ed economica con grande fatica, cambiando molti dei parametri che hanno scandito il carattere di fondo delle nostre società e le tante modalità dell’attuale stare insieme.

Il 25 Aprile, il suo sistema di valori, la sua emblematica rappresentanza dell’unità delle forze migliori del paese impegnate anche oggi ad affrontare le situazioni più difficili, non potranno che essere un riferimento importante.

Ricorre anche il 75° anniversario della liberazione dei prigionieri dai campi di sterminio nazisti da parte degli Alleati, come pure ricorre la fine della guerra in Europa. Va colta allora l’occasione per progettare un ruolo e una funzione più avanzati del nostro continente e delle sue istituzioni sovranazionali, che debbono essere in grado di ritrovare la propria solidale unità e la propria capacità di fare avanzare uno sviluppo economico ecologicamente compatibile, e saldamente coniugato con i diritti civili e sociali di tutti i cittadini europei.

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Salute e regolarizzazione dei migranti abbandonati nei ghetti - di Andrea Gambillara

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Un appello per i diritti e il lavoro dei migranti, e il secco “No” di Flai Cgil all’estensione dei voucher in agricoltura. 

Nella grave emergenza sanitaria Covid-19 che mette a dura prova l’Italia, l’Europa e il pianeta (la pandemia interessa ben 178 paesi nel mondo; non esiste più via di fuga verso nessun paese d’origine) abbiamo più che mai bisogno tutti di fare riferimento ai principi di giustizia sociale e solidarietà per fare fronte a questa minaccia inedita.

In una “lettera appello aperta”, rivolta al presidente Mattarella, al presidente Conte e ai ministri competenti – primo firmatario il segretario generale della Flai Cgil, Giovanni Mininni - molti rappresentanti di sindacati, organizzazioni del terzo settore impegnate nel campo dell’ecologia, della tutela dei diritti umani, sociali e civili, hanno espresso estrema preoccupazione per le migliaia di lavoratori stranieri impiegati nel settore agricolo, più che mai indispensabili per la sicurezza alimentare della cittadinanza e la tenuta collettiva.

Molti di loro abitano in tanti ghetti e accampamenti di fortuna, luoghi insalubri e indecenti senza acqua né servizi igienici: il rischio che il Covid-19 arrivi in quegli aggregati, tramutandoli in focolai della pandemia, è reale; e le richieste di restare a casa o lavarsi le mani, rivolte alla comunità nazionale, per loro sembrano chimere. A fronte dell’impegno delle organizzazioni che continuano ad operare sul campo, non risulta da parte degli organi istituzionali alcun intervento specifico di prevenzione in questi contesti altamente a rischio. Sono necessari correttivi istituzionali immediati; monitoraggio preventivo e presa in carico degli eventuali casi di Covid-19, in ossequio al principio costituzionale della tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.

I prefetti hanno l’autorità di assumere autonomamente iniziative o adottare disposizioni volte alla messa in sicurezza dei migranti e richiedenti asilo presenti sul territorio, anche mediante l’allestimento e/o la requisizione di immobili a fini di sistemazione alloggiativa. Le risorse necessarie potrebbero essere attinte dalla dotazione del Piano triennale contro lo sfruttamento e il caporalato. Lo stesso “decreto sicurezza”, nato con finalità di ostracismo e soffocamento della realtà migratoria, prevede all’articolo 20bis il riconoscimento di titoli di soggiorno per eccezionali calamità.

Il settore agricolo, inoltre, ad oggi patisce anche la carenza di circa 300mila lavoratori agricoli in alcune aree del paese in ragione dell’interruzione dei flussi di manodopera dai paesi dell’est Europa. I lavoratori extracomunitari che si trovano in condizione di irregolarità (anche richiedenti asilo bocciati dalle Commissioni territoriali), e tutti coloro che sono alla ricerca di una occupazione possono tamponare questo vuoto, ma occorre garantire loro i diritti fondamentali. Diventa quindi sostanziale una regolarizzazione per far emergere chi è stato costretto a vivere e lavorare in condizioni di irregolarità.

Questo però non dev’essere uno strumento per rifornire il settore primario di lavoro a buon mercato, in un momento di choc economico. In questi giorni infatti le organizzazioni datoriali agricole hanno richiesto con forza di estendere e liberalizzare l’uso dei voucher in agricoltura, approfittando del clima di emergenza in cui versa il nostro paese, sostenuti da diverse forze politiche in Parlamento, non solo di opposizione (alcune con posizioni quali: “Spettabili oo.ss., se volete uccidere definitivamente l’agricoltura italiana in un momento così drammatico siete sulla buona strada. Sono totalmente contrario alla vostra presa di posizione. I voucher sono necessari, per consentire all’agricoltura di sopravvivere”.).

L’argomentazione ufficialmente portata a sostegno di tale richiesta sta nell’auspicio di poter, in questo modo, attirare lavoratori anche italiani nelle imminenti “campagne di raccolta”, affinché possano appunto sostituire la mancanza di lavoratori dell’est Europa.

L’appetibilità del lavoro agricolo risiede invece nella regolarità contrattuale e nella garanzia della sicurezza. È necessario, pertanto, rafforzare le misure di contrasto al lavoro nero, favorire l’assunzione di chi sta lavorando in maniera irregolare, attuare i protocolli sottoscritti in tema di collocamento pubblico, attivare concretamente le sezioni territoriali previste dalla legge 199/2016, applicando i contratti collettivi agricoli.

Servono soluzioni strutturali che, soprattutto in condizioni di eccezionalità, non possono attendere. (Il testo dell’appello su www.flai.it. Per adesioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

Di pregiudizio si muore. Rom e sinti nella pandemia - di Ernesto Rossi

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L’8 aprile del 1971 si tenne a Londra il Primo Congresso Mondiale Rom. Nacque l’Iru International Romanì Union, furono scelti l’inno Gelem gelem e la bandiera.  

Era il 1847 quando il medico ungherese Ignác Semmelweis risolse il problema delle mortali febbri puerperali, imponendo che chiunque entrasse nel padiglione di ostetricia dovesse lavarsi e disinfettarsi le mani. Questa semplice misura abbatté il numero di morti da parto, ma sollevò invidie irrisione e discredito, fino al licenziamento del medico dall’Università di Vienna. Solo nel 1864 Pasteur avrebbe dimostrato la contaminazione batterica, restituendo il merito a Semmelweiss; alcuni documenti del quale l’Unesco ha inserito ora nel registro della Memoria del Mondo.

Ed ecco che in queste settimane di pandemia da coronavirus, che ci vedono tutti reclusi, la semplice raccomandazione, non troppo praticata, di lavare frequentemente le mani, riemerge con la prepotenza di una misura basilare per contenere l’infezione.

Lavarsi le mani, certo! Ma per poter compiere un gesto così semplice di salvezza bisogna avere accesso all’acqua. E due miliardi di persone non lo hanno.

Anche se oggi si viaggia molto e rapidamente dovunque, e il virus viaggia veloce con noi, i diritti, quelli fondamentali, ancora arrancano. E senza andare lontano, anche nel nostro paese, nella nostra città, così civile e avanzata, vi sono persone e gruppi che possono accedere all’acqua solo dalle fontane pubbliche: non hanno una casa, non hanno un lavabo, non possono fare nessuna quarantena. Immigrati, ‘regolari’ o meno, richiedenti asilo non più tutelati, persone senza casa. 

La condizione peggiore, la più antica, è quella di rom e sinti. 

In Italia rom e sinti sono circa 170-180mila, una cifra che non dovrebbe far tremare il cuore ai governi d’un paese ricco e moderno, uno dei più ricchi al mondo. In più, la grande maggioranza di loro vive come tutti in casa, lavora e manda i figli a scuola. Presumibilmente, a parte un po’ di attivisti e molti giovani, che hanno studiato e stanno prendendo in mano il loro futuro, non si agitano troppo per farsi identificare. ‘Fortuna’ che possiamo salvare l’inguaribile idiozia e il razzismo, a causa dei forse 30mila rom “ospiti” involontari di ghetti tipicamente italiani. Da noi, con tipico senso dell’umorismo, si chiamano “campi nomadi”: ci campano come possono, abbandonati, come si diceva, da dio e dagli uomini (ma non dalla mafia di Roma Capitale), da quaranta e più anni (giusto per il nomadismo). 

Tra loro, quei rom profughi dalle guerre etniche in cui affondò, aiutata, la Jugoslavia. Qui giunti, abbandonate le case distrutte o occupate, lì sono finiti, promossi ‘nomadi’, insieme a tutti gli altri, i nostri, fissi in Italia dal 1400! La guerra etnica gliela facciamo noi, ora. Niente spari e stupri, solo una mortale persecuzione, quella del pregiudizio: niente lavoro, casa, salute, scuola. Niente futuro ai bambini. 

E chi ce l’aveva il lavoro, l’ha perduto: i sinti giostrai e circensi.

Ma davvero ci conviene?

Quella dell’odierna pandemia è per rom e sinti un’ulteriore emergenza nell’emergenza comune. Se vogliamo stroncare l’infezione, la loro storia non può continuare così. Se non per la comune umanità, almeno per opportunità. 

Ce lo insegna il Virus coronato. O ci costringerà. Se non viene debellato ovunque, dalle persone e dalle aree emarginate dove giungesse e potesse sopravvivere, a causa delle condizioni d’igiene e assistenza, poi tornerà a noi. 

Non possono dunque più esistere ghetti isolati, per qualunque ragione o mancanza di ragione, luoghi senza diritti. Uno di questi diritti è la salute, per tutti. E gli altri? Lavoro, abitare, istruzione: una domanda urgente e perentoria di giustizia sociale, troppo a lungo negata.

Siamo partiti da Semmelweiss, vittima dei pregiudizi e concludiamo con un popolo intero vittima dei pregiudizi.

Il primo episodio è costato la vita a molte madri solo perché allora i medici ritenevano indecoroso lavarsi le mani. Quest’ultimo, su rom e sinti, dura da troppo tempo e rappresenta un veleno per la democrazia. 

Oggi nessuno si permetterebbe di parlar male degli ebrei. Ma finché esiste un popolo emarginato, discriminato e perseguitato, solo in quanto tale, senz’altra ragione, ciò non potrà non richiamare l’unico altro popolo sterminato in quanto tale, gli ebrei. E, peggio, manterrà viva l’“idea” che sia possibile perseguitare senz’alcuna ragione e sterminare un popolo intero. Secondo convenienza.

Così, ci si deve chiedere dove finisce questa fragile democrazia che troppi si affannano a spingere sull’orlo di non si sa quale baratro.

Che ci voglia un virus per restituirci il senso di umanità che dovremmo avere?

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