Padroni, siete brutti - di Giacinto Botti

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“Padroni siete brutti” era scritto a mano su un cartello, portato in corteo da un operaio in una delle tante mobilitazioni di fine anni ‘60. 

Anni straordinari di dura lotta, di unità e di grandi conquiste, a partire da quello Statuto dei Lavoratori di cui celebriamo i cinquant’anni, che certo va aggiornato, ma rappresenta un pilastro tuttora valido, da difendere con i denti dinanzi al programma politico della “nuova” Confindustria e del suo neo presidente, insediato proprio nel giorno del cinquantesimo.

Il capitalismo predatorio e il conservatore padronato italiano vogliono usare la pandemia per riaffermare la propria egemonia e mettere in discussione diritti e conquiste di civiltà, di dignità della persona, modelli di contrattazione, orari e condizioni di lavoro. Ripropongono la società neoliberista e il pensiero unico, l’illusione ideologica della crescita illimitata di sfruttamento del pianeta e dell’uomo, come se la devastante lezione che sta mettendo in ginocchio l’umanità e in asfissia lo stesso capitalismo fosse un passeggero castigo divino. 

E’ rinato il “partito dei padroni”. Non vuole lo Stato dentro le imprese ma le imprese dentro lo Stato, pretende ingenti risorse pubbliche senza condizionamento alcuno (vedi il prestito a garanzia pubblica per Fca, con sede in Olanda, tasse in Uk e prossima “sposa” a Psa con capitale pubblico francese), rivendica ancora la centralità del mercato e dell’impresa, vuole dettare la linea sulla ripresa economica e sociale con modelli obsoleti e fallimentari. Il capitalismo finanziario e la lobby delle imprese riaffermano la loro storica spregiudicatezza: liberisti nei profitti, statalisti nelle perdite. Un partito di interessi privati che vuole condizionare la politica, piegare il governo alle sue richieste, accaparrarsi senza nessun vincolo occupazionale e di investimento le risorse a disposizione per la ripresa dopo Covid19. 

Servono giustamente coperture economiche, strumenti e risorse pubbliche per favorire la ripresa, un aiuto subito a chi è stato colpito duramente dalla crisi. Ma è sbagliato togliere le tasse a tutti, riversare finanziamenti a pioggia su chi non ne ha bisogno, su chi con la crisi sta aumentando fatturati e introiti, su chi, proprietari di imprese, di attività produttive e commerciali varie, sta  denunciano stratosferiche perdite senza nessun reale rapporto con il reddito e le tasse dichiarati negli anni precedenti. Condizionare a quanto dichiarato sarebbe un segnale verso i furbi, gli evasori di sempre, che esigono dallo Stato ciò che hanno omesso di dare. 

Un padronato che pretende di dettare l’agenda e di rimuovere le sue gravi responsabilità sulla condizione sociale ed economica del Paese, sulla diffusa illegalità e corruzione, sul lavoro nero e la devastante evasione, sulla situazione del sistema sanitario e scolastico, sul depauperamento del tessuto produttivo, sulla povertà e le diseguaglianze crescenti. Deresponsabilizzato e impunito, punta a mani libere da “lacciuoli” burocratici e condizionamenti sociali, per trarre vantaggi e profitti anche dall’emergenza che ha messo in ginocchio il Paese.  

Si fanno crociate strumentali contro l’Inail sulla responsabilità penale dell’impresa che non adotta le misure obbligatorie contro il contagio. Gli imprenditori più spregiudicati dormono sonni tranquilli sapendo che, nel Paese con oltre mille morti sul lavoro all’anno, è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che un ispettore entri in azienda, dato anche il dimezzamento dell’organico. 

La linea della  nuova rappresentanza padronale ha l’obiettivo di piegare la politica e i governi alle proprie esigenze, stabilire rapporti di forza più favorevoli sul movimento sindacale. 

La politica può fare molto se riacquista credibilità e afferma autorevolezza di pensiero e di azione sullo strapotere dell’economia, della finanza e delle multinazionali sulla vita delle persone e sul futuro della  società. 

Questa è la realtà con cui dovremo fare i conti. La bussola, come sempre, non può che essere il lavoro e la dignità delle donne e degli uomini liberi. 

Molto è cambiato in questi cinquant’anni, ma la contrapposizione tra capitale e lavoro rimane la stessa: il conflitto tra interessi e le diverse visioni del mondo e del progresso. Il cambiamento radicale che indichiamo come necessità per salvare il pianeta, difendere la dignità e la vita delle persone e dare un  futuro degno alle giovani generazioni non ci sarà regalato di certo da chi detiene privilegi, poteri e ricchezze. Dovremo conquistarcelo ancora una volta con la partecipazione, il conflitto, la mobilitazione della parte migliore del Paese. Sempre con la Cgil. 

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#REGOLARIZZATELI. Una norma di civiltà - di Giovanni Mininni

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Una norma di civiltà per cui la Flai Cgil si batte da anni: così definiremmo la regolarizzazione dei migranti inserita nel “Decreto rilancio”. Appena l’emergenza sanitaria è esplosa abbiamo chiesto azioni urgenti per tutelare i tanti migranti costretti a vivere nei cosiddetti insediamenti informali, preoccupati del fatto che le misure di tutela della salute non potessero trovare alcuna possibilità di attuazione in quei luoghi. Con il rischio che, alla già drammatica situazione in cui versano i migranti, si aggiungesse l’impossibilità di contenere il contagio, a danno non solo loro ma dell’intera collettività.

Con la campagna #REGOLARIZZATELI e la lettera appello che abbiamo promosso insieme a Terra Onlus, che ha visto tantissime adesioni da parte di associazioni importanti, personalità di rilievo e anche privati cittadini, sostegni preziosi in questi mesi, abbiamo portato all’attenzione del Presidente della Repubblica e dell’esecutivo l’urgenza di risolvere la questione della regolarizzazione dei migranti che vivono nei ghetti.

Quanto previsto nel decreto significa per tante donne e tanti uomini la possibilità concreta di affrancarsi dal ricatto e dai soprusi dei caporali attraverso il riconoscimento della loro esistenza nel nostro Paese. Perché di questo si sta parlando: dare a coloro che hanno continuato a lavorare nei campi, per far arrivare sulle nostre tavole frutta e verdura anche in questi mesi di lockdown, la possibilità di essere visibili, legali, di cercare lavoro e pretendere che sia pagato il giusto.

Abbiamo sempre ribadito che la nostra era ed è prima di tutto una battaglia di dignità e giustizia sociale. La “roulette sui numeri” che ha riempito le pagine dei quotidiani nei giorni scorsi, e che ancora oggi continua, non ci appassiona per due ordini di motivi. Il primo è che i numeri, quelli reali, può e deve fornirli il ministero dell’Interno. Il secondo è che ci fa orrore l’idea di dover parlare dei migranti come di braccia che ora ci fanno comodo e che, terminate l’emergenza e la stagione di raccolta, possiamo serenamente accompagnare alla porta. Si tratta di lavoratori e lavoratrici che vivono in Italia, ai quali vanno riconosciuti diritti fondamentali, una vita ed un salario dignitoso.

Quello della regolarizzazione è un tema trasversale, che interessa tutti i lavoratori, poiché togliendo i migranti dal giogo dei caporali e della criminalità organizzata si può riuscire a rompere il meccanismo perverso dello sfruttamento e del sotto-salario in agricoltura, che spesso subiscono anche i lavoratori italiani. Di più, questo permette di compattare la lotta e batterci uniti, lavoratori italiani e stranieri, per avere il giusto salario e l’applicazione dei contratti, mentre le aziende che sfruttano non avranno più la possibilità di ricattare i lavoratori, anche italiani, minacciandoli di trovare chi è disposto a lavorare, per necessità, in condizioni peggiori.

Questa la nostra risposta concreta, tangibile e chiara a chi ci ha tacciati di perseguire una battaglia “buonista”. Pari diritti, pari salario, pari dignità. Nel dettaglio, il decreto prevede che siano regolarizzati i lavoratori cui è scaduto il permesso di soggiorno dal 31 ottobre 2019 ma anche chi, in questo momento, ha in corso un rapporto di lavoro in nero, purché abbia attivato un contratto minimo di qualche giornata in agricoltura.

Altro elemento importante è la platea cui il provvedimento si applica, che ricomprende tutti i lavoratori impiegati in attività agricole, non solo quelli dell’agricoltura propria ma anche chi lavora nelle attività connesse: magazzini, allevamenti, macellazione, trasporti.

Ora occorre vigilare affinché il decreto sia applicato e siano resi operativi gli importanti strumenti già individuati con la legge 199/2016, primo fra tutti le sezioni territoriali della ‘Rete del lavoro agricolo di qualità’ per l’incontro pubblico tra domanda ed offerta di lavoro. E ancora occorre dar gambe a quanto previsto al ‘Tavolo sul caporalato’ con il piano triennale in tema di alloggio ed accoglienza, compresa la dotazione finanziaria già prevista per l’attuazione di questo piano. Riteniamo fondamentale dare finalmente gambe a questi strumenti e continueremo a batterci per rendere concrete tutte queste misure.

Ci auguriamo infine che questo importante provvedimento non diventi terreno di scontro politico da parte della destra, perché il nostro Paese ha bisogno, ora più che mai, di giustizia sociale e capacità di guardare al bene comune e non agli interessi particolari. l

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Senza contrattazione, il lavoro da casa non è smart - di Esmeralda Rizzi

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Quando lo smart working è davvero smart? Quando è alternato, contrattato e regolamentato. Ce lo hanno detto le oltre 6mila persone che in poco più di due settimane hanno compilato il questionario online lanciato dall’Area politiche di genere della Cgil all’indomani del lockdown, e realizzato in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio. Cinquantatré domande per indagare i diversi aspetti del lavoro da casa al tempo del Covid, e sulla base dei risultati ipotizzare correttivi e miglioramenti.

Dopo le prime settimane di assestamento, hanno iniziato infatti a emergere considerazioni e criticità del lavoro da casa nel quale milioni di persone – dai 500mila pre Covid al picco degli 8 milioni della piena crisi - sono precipitate improvvisamente, senza una preparazione specifica, una formazione adeguata, qualche volta anche senza strumentazione o dovendola condividere con altri membri della famiglia.

Home working più che lo smart working definito dalla legge che lo ha introdotto, il cosiddetto jobs act delle imprese, e che ne ha dettato le caratteristiche fondamentali, dalla flessibilità organizzativa e per obiettivi, all’assenza di vincoli spazio temporali. Con alcuni importanti limiti, primo tra tutti il non avere previsto l’intervento del sindacato nell’accordo tra datore di lavoro e lavoratore. Sottovalutando, con dolo o forse solo negligenza, lo squilibrio di potere tra le parti.

Questo perché alle grandi aziende lo smart working, che alleggerisce i costi delle sedi lasciando i lavoratori a casa, controllabili da remoto e scollegati tra loro, esterni ai luoghi di decisione, interessa. Un po’ meno quando a chiederlo sono le donne, se hanno figli o familiari ammalati, perché temono che ci si possa distrarre ed essere meno produttivi. Resta comunque una modalità di lavoro considerata apprezzabile, tanto che negli anni sono state investite risorse per finanziare un ‘Osservatorio sullo smart working’ istituito presso il Politecnico di Milano, insieme a studi e ricerche che ne hanno promosso il ricorso.

Per questo l’indagine della Cgil è importante: è il primo studio sullo smart working condotto dalla prospettiva dei lavoratori, con l’obiettivo dichiarato di far emergere criticità e positività da impiegare come guida per accordi post Covid.

Incrociando le risposte, emerge con chiarezza che il lavoro da remoto è più apprezzato se accompagnato da formazione, da meccanismi che consentano di mantenere le relazioni con i colleghi, e se vissuto alternandolo con il lavoro dalla sede. Di sicuro l’elemento di maggiore attrazione è il recupero dei tempi e dei costi legati agli spostamenti da e per il lavoro, che sono fonte di spese e di stress.

Eppure lo smart working non piace in egual misura a uomini e donne. Soprattutto piace meno alle donne, che nel rispondere ammettono come questa modalità di lavoro sia per loro poco indifferente, il 58,37% contro il il 44,5% dei maschi che infatti per oltre 48% la ritengono molto e abbastanza indifferente. Per le donne è più complicato (33,8% vs 25% circa); più alienante; più stressante (37,4% vs 29,3%).

Lavorare da casa significa anche dovere prestare attenzione ad alcuni parametri che qualificano il lavoro e che nell’emergenza sono passati in secondo piano, ma che in un contesto extra emergenziale diventano nodali: il diritto alla disconnessione, il controllo a distanza, la correttezza della postazione e delle pause, la privacy. E di seguito il sovrapporsi di impegni familiari e professionali.

Tra i punti più interessanti quello sull’impiego del tempo liberato che spesso, e soprattutto per le donne, finisce per confluire nel tempo per la cura o per gli impegni domestici. Ecco perché per le donne lo smart working è meno soddisfacente che per gli uomini.

Nato per la conciliazione, almeno nelle intenzioni dichiarate dal legislatore, lo smart working senza regole rischia di diventare uno strumento di ghettizzazione. Se il 60% degli intervistati dichiara che potendo vorrebbe proseguire questa esperienza anche dopo l’emergenza, resta che i più soddisfatti sono quelli che hanno potuto fare formazione, riservare del tempo per sé, non rimanere incastrati tra lavoro professionale e domestico. Servono quindi regole e paletti che solo la contrattazione più individuare. E che solo il sindacato può contrattare.

Scuola, quale ripartenza? - di Raffaele Miglietta

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Per lo svolgimento degli esami di Stato in sicurezza è stato sottoscritto un protocollo tra sindacati e ministero dell’Istruzione. Più problematica la riapertura delle scuole a settembre.  

Per l’anno scolastico, ormai prossimo al termine, le attività didattiche in presenza non riprenderanno. Le condizioni epidemiologiche del Paese sono tali da sconsigliare la riapertura delle scuole, che comporterebbe la messa in movimento – e in contatto - di circa nove milioni di soggetti tra studenti e personale scolastico. Pertanto le lezioni didattiche continuano da remoto fino alla conclusione di questo anno scolastico, con tutte le problematiche e criticità che questo modo di fare lezione comporta per i tanti studenti che, o perché privi dei dispositivi informatici o perché con particolari esigenze educative, vengono di fatto esclusi dalle attività di formazione.

Solo l’esame di Stato a giugno, seppur in forma semplificata, si svolgerà in presenza. Per assicurare che questa prova venga effettuata in condizioni di sicurezza – per il personale come per gli studenti - è stato firmato il 19 maggio uno specifico protocollo tra ministero dell’Istruzione e organizzazioni sindacali della scuola e della dirigenza scolastica. Il protocollo assume le indicazioni operative predisposte appositamente per la scuola dal ‘Comitato tecnico scientifico’ nazionale, che ha specificato le misure organizzative di prevenzione e protezione per svolgere in sicurezza la prova d’esame in presenza. Il protocollo inoltre prevede la costituzione di un ‘Tavolo nazionale permanente’, composto da rappresentanti del ministero e delle organizzazioni sindacali, con il compito di monitorare l’attuazione del documento tecnico scientifico presso le istituzioni scolastiche. Un tavolo analogo viene costituito a livello regionale. Infine a livello di scuola saranno attivate le relazioni sindacali di istituto per definire un’intesa per l’attuazione delle misure di sicurezza (fornitura dei dispositivi al personale, igienizzazione dei locali, ecc.). L’impegno della Flc Cgil è a far sì che l’esame di Stato si svolga nelle massime condizioni di sicurezza, attribuendo a ogni livello territoriale poteri di verifica e controllo, per adeguare le condizioni di sicurezza ai contesti specifici locali.

Dopo questa prova l’attenzione si concentrerà sulla ripartenza delle scuole a settembre per la totalità degli alunni, con l’obiettivo di assicurare attività in presenza e non più a distanza, cosa non facile considerato che, per quella data, la situazione epidemiologica probabilmente non sarà ancora risolta. Ciò significa che le misure di sicurezza già assunte per gli esami di Stato dovranno essere fortemente ampliate, in considerazione del fatto che occorrerà garantire il distanziamento fisico in scuole con 1.000/1.500 studenti e con classi spesso sovraffollate o di piccole dimensioni.

Per predisporre le scuole a riaprire in sicurezza e metterle in condizione di effettuare le attività didattiche in presenza, occorrerà un grande piano di investimenti. Necessitano interventi per ampliare l’organico di scuola, sia docente che Ata, potenziare la strumentazione didattica, adeguare gli ambienti scolastici alle nuove esigenze di sicurezza, dotare il personale dei dispositivi di protezione della salute, ecc.

A questo proposito la Flc e la Cgil hanno predisposto una dettagliata piattaforma rivendicativa per rilanciare il sistema scolastico pubblico dopo i pesanti tagli subiti negli ultimi anni, per garantire la ripresa delle attività in presenza e in sicurezza, per restituire all’istruzione pubblica quella centralità indispensabile anche per la ripartenza del Paese. Purtroppo le risorse stanziate dal governo nel recente ‘Decreto rilancio’ per il riavvio della scuola sono del tutto inadeguate.

La Flc Cgil ha già promosso per lo scorso 13 maggio, insieme agli altri sindacati di categoria, una giornata nazionale di assemblee sindacali “on line”, che ha avuto un grande riscontro di partecipazione. Ora il sindacato deve proseguire su questa strada promuovendo, pur nelle condizioni date, ulteriori iniziative di mobilitazione per cambiare profondamente le scelte governative in materia di istruzione: a rischio c’è la ripresa della scuola a settembre..

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