C’è la volontà politica di sbloccare il processo agli assassini di Giulio Regeni? - di Eugenio Oropallo

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Pochi giorni fa si è ricordato il sesto anniversario del truce assassinio di Giulio Regeni. Intanto, il giudice dell’udienza preliminare (Gup), nell’ultima udienza del processo per l’assassinio del giovane ricercatore, ha indicato al governo, e in particolare al ministro degli Esteri, di richiedere alle autorità egiziane di fornire gli indirizzi dei quattro imputati per poter notificare loro gli atti giudiziari.

Ci sarà una nuova udienza l’11 aprile. Questi tre mesi concessi dal Gup di Roma servono perché si svolgano nuove ricerche sugli imputati ancora irreperibili: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, tutti accusati di sequestro di persona e omicidio pluriaggravato. I carabinieri del Ros avranno altro tempo per verificare i luoghi di residenza e di lavoro dei quattro agenti dei servizi egiziani, sfruttando l’analisi di banche dati delle forze dell’ordine, elenchi telefonici, social network e fonti confidenziali.

Il Gup ha trasmesso gli atti al governo, da cui si aspettano gli esiti della rogatoria internazionale inoltrata ormai nell’aprile 2019. L’attesa è anche per possibili “interlocuzioni” tra le autorità italiane e quelle egiziane. Una richiesta che ha sollevato qualche imbarazzo negli uffici di via Arenula e del governo, in quanto è dal 2014 che l’Egitto ha interrotto ogni tipo di collaborazione con l’Italia. Anche il pm e i difensori della famiglia Regeni si son detti soddisfatti per questa iniziativa.

Il primo tentativo di far partire il processo si era fermato lo scorso 14 ottobre, quando il giudice decise che non si poteva procedere per difetto di notifica: gli imputati sono residenti in Egitto, Paese che ha un accordo di cooperazione giudiziaria con l’Italia. Per dare via al processo con gli imputati assenti il tribunale dovrebbe considerare ragionevolmente certo che questi siano a conoscenza del procedimento e abbiano deciso di non presentarsi. Il giudice decise che questa ragionevole certezza non c’era e restituì gli atti alla procura.

Se il governo italiano non otterrà risultati nel “dialogo” con l’Egitto, ci sarebbe la prospettiva di modificare la normativa, prevedendo che, in caso di impossibilità di notificare gli atti ai diretti interessati, la notifica possa essere fatta allo Stato di appartenenza. Ma bisognerebbe mettere mano a più di una norma prevista dal codice di procedura penale.

Chiede Luigi Manconi, su la Repubblica del 12 gennaio scorso, “quali strumenti di pressione e quali forme di condizionamento…e quale peso politico l’Italia è in grado di esercitare nei confronti dell’Egitto?”. Praticamente zero, soprattutto a tener conto che in questi ultimi anni il despota Al-Sisi è stato ritenuto “un amico dell’Italia in nome di una strategia del Mediterraneo che si è rivelata alla resa dei conti la solita politichetta ispirata da interessi mediocri e da prospettiva di corto respiro”. Tenendo conto del clima di collaborazione e di normalità in questi sei anni nelle relazioni tra i due Paesi, c’è ben poco da sperare, soprattutto in un periodo in cui è in discussione l’assetto futuro del Mediterraneo, con la ricerca della collaborazione del governo egiziano.

Il caso Regeni rappresenta un vero test per la credibilità dei governi italiani che, in nome dei buoni rapporti con l’Egitto e per portare in porto commesse miliardarie di armamenti e gli interessi petroliferi di Eni, hanno sempre parlato di una volontà di collaborazione delle autorità egiziane, smentite nei fatti e nelle stesse dichiarazioni del Procuratore generale del Cairo.

Nonostante tutto questo, Fincantieri ha proceduto alla consegna delle due fregate vendute agli egiziani, tanto che la famiglia Regeni ha presentato lo scorso anno in procura a Roma un esposto contro il governo, colpevole di violazione del divieto di esportazione di materiale di armamento verso Paesi responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani. È l’articolo 1 della legge 185 del 1990 che lo prevede.

Le guerre, purtroppo, sono sempre un buon affare per gli Stati; la produzione di materiale bellico non è stata messa in crisi neppure in questo periodo di pandemia, e dubitiamo che il governo Draghi sappia ritornare su decisioni già prese. Ma la dignità di una persona non può essere messa in discussione, così come il lavoro svolto dalla nostra magistratura. Se Al Sisi non ha nulla da nascondere, perché ha deciso di non collaborare a questo processo?

E’ ancora Manconi a condannare duramente l’inerzia del governo ed in particolare degli “ossequiosi cultori della realpolitik, più per pavidità che per intelligenza strategica”, mortificando la sovranità dello Stato nazionale e oltraggiando ancora una volta la figura del giovane studioso trucidato dai servizi segreti egiziani. Condividiamo pienamente questa accusa nei confronti dell’attuale governo, che non ha espresso nessuna proposta in grado di dare efficacia e forza all’affermazione della verità e della giustizia.

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