È l’impresa che ha ucciso Lorenzo Parelli - dalle Compagne e compagni di Lavoro Società per una Cgil unita e plurale Flc Cgil

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In un Paese in cui si muore tutti i giorni di lavoro - 3,8 la media delle vittime quotidiane nel 2021 - quando questo accade anche in un percorso di formazione professionale la media non subisce flessioni. Per questo è morto Lorenzo Parelli, perché in Italia si muore di lavoro. E l’impresa non considera la sicurezza un valore ma un costo che si può tagliare; un’altra modalità per risparmiare sul costo del lavoro e mantenere le retribuzioni più basse d’Europa. Uno dei tanti modi per affrontare la competizione globale. Questo è il ruolo che si sono assegnate le imprese italiane e la Confindustria.

Nel caso specifico, non siamo nell’alternanza scuola-lavoro, voluta dalla “buona scuola” del governo Renzi, ma la sostanza non cambia, perché Lorenzo è sempre una vittima del lavoro, perché ha incontrato l’azienda dove è andato a fare il suo stage e questo non l’ha risparmiato dai rischi che corrono ogni giorno lavoratrici e lavoratori in Italia. Tanto più se manca una corretta formazione sulla sicurezza, e la formazione professionale a maggior ragione non dovrebbe eludere questo tema. Solo questo avrebbe potuto garantire Lorenzo; ma questo non è dato in un Paese dove si muore in maniera impensabile per ogni altro Paese europeo a democrazia avanzata, sia che si tratti di industria, edilizia o agricoltura.

Lorenzo era inserito in un percorso professionalizzante legato alla scuola di formazione professionale e al percorso di studi ivi previsto. Non era in alternanza, ma in un percorso formativo professionale che in Italia spesso viene considerato di serie B rispetto al percorso classico di istruzione per il diploma o la maturità quinquennale. Un percorso che serve anche alle istituzioni regionali per dimostrare che “si tolgono ragazzi dalla strada”, per avviarli a un percorso professionalizzante, purchessia, e quindi al lavoro. Un modo per eliminare i “neet” dalle statistiche. Un percorso che comunque non avrebbe dovuto tralasciare la sicurezza sul lavoro.

Sono percorsi previsti già prima dell’avvento dell’alternanza scuola-lavoro, ma che non cambiano la sostanza. Perché, se si deve andare presso l’azienda a prestare la propria opera, per quanto professionalizzante, nelle condizioni attuali stanti le norme e le risorse limitate, si rischia di essere risucchiati nel meccanismo di sfruttamento dell’operaio alla catena di montaggio, o nello sfruttamento manuale e intellettuale del lavoro divenuto nel frattempo dominante. In sostanza, esposti totalmente alla barbarie degli ultimi decenni, in cui il lavoro è diventato sempre più un disvalore e con esso la sicurezza sul lavoro, infine anch’essa diventata occasione di risparmio per le imprese.

L’alternanza scuola-lavoro si inserisce in questa dinamica di disvalore del lavoro, ultimo tassello di una visione aziendalista e falsamente efficientista di una pessima riforma, la cosiddetta “buona scuola”, voluta dal governo di Matteo Renzi e dal suo partito di allora. La volontà di forzare un’alternanza, già praticata in autonomia dalle scuole italiane (un’esperienza di buone pratiche, peraltro), per sciorinare una inutile quanto fallace idea di scuola orientata al lavoro, in cui la formazione si piega definitivamente all’impresa, ultima tappa della scuola berlusconiana delle “tre I” (impresa, informatica, inglese), che non ha fatto che peggiorare le condizioni di sfruttamento del lavoro. Un’idea giustamente contrastata dalla Flc Cgil in questi anni, e già presente nella riforma Moratti.

Fanno bene gli studenti a scendere in piazza in queste settimane, dopo la morte di Lorenzo, e aprire una vertenza sull’alternanza scuola-lavoro e sulla sicurezza sul lavoro, perché dietro questa idea, non molto dissimile da quanto succede nei percorsi professionalizzanti delle scuole di formazione professionale, c’è un’ulteriore forma di sfruttamento, la possibilità vantaggiosa per le imprese di avere forza lavoro gratuita.

La domanda di fondo, indipendentemente dal percorso professionalizzante o dall’alternanza scuola lavoro, è quale formazione professionale può derivare da un’esperienza lavorativa presso un McDonald’s, o dallo spostare pancali in un magazzino aziendale? Quale può essere il valore aggiunto dell’alternanza se si riduce a questo? E qui c’è in pieno il tema della sicurezza sul lavoro, che avrebbe dovuto salvare la vita di Lorenzo.

Sarebbe invece chiaro l’arricchimento derivante se l’esperienza fosse fatta, in coerenza con il percorso didattico e nel rispetto dell’autonomia di scuole e istituzioni formative, ad esempio presso un centro di ricerca qualificato o una pubblica amministrazione, o presso un’azienda all’avanguardia, dove la sicurezza del lavoro non sia considerata un costo. O forse per fare il manovale bisognerà affidarsi ad improbabili percorsi formativi o professionalizzanti?

Per contrastare tutto questo, e costruire una vera cultura della prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, si deve partire anche dalle scuole e dai centri di formazione, ma occorre investire le risorse necessarie, e superare una volta per tutte l’alternanza scuola-lavoro voluta dal governo Renzi.

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