Il significato della rielezione di Mattarella - di Alfonso Gianni

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Tutto si è giocato attorno alla coppia Mattarella-Draghi e alla fine l’uno resta Presidente della Repubblica – si suppone per l’intero settennato - l’altro Presidente del Consiglio, probabilmente fino alla normale fine della legislatura. Ma l’immobilismo è solo apparente: nei ruoli apicali delle istituzioni si verificano sommovimenti notevoli, quasi tellurici.

Le coalizioni sono scombussolate; il ruolo dei partiti è apparso inesistente; mentre al loro interno si profilano lotte accanite, i loro leader sembrano come storditi o palesano un’evidente incapacità in altri (e sono tutti puniti negli inevitabili sondaggi); il Movimento 5 Stelle viene addirittura decapitato e il suo Statuto cancellato da un tribunale civile, quello di Napoli – ed è la prima volta che si registra un intervento così pesante della magistratura nella vita dei partiti -, accentuando le lotte interne che potrebbero prefigurare una scissione; il Parlamento, per la seconda volta consecutiva nella storia della Repubblica, ha mostrato la sua incapacità di scegliere una nuova figura da far salire al Colle, disattendendo il monito che Giorgio Napolitano espresse nel discorso del suo reinsediamento nell’aprile del 2013, per cui “la non rielezione, al termine del settennato, è l’alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica”.

Il tema della non rielezione era già stato autorevolmente affrontato da Carlo Azeglio Ciampi, quando, il 3 maggio del 2006, rese pubblica una nota con la quale respingeva le proposte che erano emerse per un suo secondo mandato, facendo riferimento non solo a ragioni di carattere soggettivo – “l’età avanzata” – ma anche, se non soprattutto, a motivi di carattere oggettivo, riassumibili nella frase finale della sua dichiarazione: “Il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”. Un pesante avvertimento, ma disatteso.

Mattarella ha invece evitato la questione derubricando una condizione eccezionale in un’acquisita normalità. Certamente la rielezione di Mattarella non può dirsi illegittima dal punto di vista costituzionale, come non lo era quella di Napolitano. Un semplice sguardo ai lavori dell’Assemblea Costituente chiarisce che la mancata immissione nel testo costituzionale della non rieleggibilità del Presidente della Repubblica avvenne al termine di un articolato dibattito. Nei verbali dei lavori preparatori, che poi portarono alla formulazione dell’attuale testo dell’articolo 85 della nostra Costituzione, si può leggere che il relatore Egidio Tosato, democristiano, “ritiene che non sia opportuno escludere la possibilità della rielezione, soprattutto data la situazione politica attuale di penuria di uomini politici, dopo venti anni di carenza di vita politica”.

Le preferenze espresse senza risparmio dagli organi di stampa internazionali, specialmente quelli economici, hanno oscillato tra un Draghi Presidente della Repubblica e un Draghi in continuità con il suo ruolo di Presidente del Consiglio. Purché Draghi ci fosse e continuasse a rappresentare da protagonista, da ingegnere inventore del “pilota automatico” e non da semplice ‘driver’ di emergenza, i desiderata della Unione europea, per la semplice ragione che un insuccesso di Next Generation Eu nel nostro paese, maggiore beneficiario dei fondi europei, avrebbe significato la sconfitta della politica monetaria espansiva. Per di più alla vigilia della discussione sulle modifiche o meno da apportare al rientrante piano di stabilità e crescita.

Per Bill Emmot, per tanti anni direttore dell’Economist, ora editorialista del Financial Times, in Italia “gli ultimi due capi dello Stato hanno agito in un modo paragonabile a un mix di presidenti non esecutivi e di pontefici secolari”. Per l’autorevole opinionista, quindi, era già stata tracciata la strada verso l’ibridazione tra la figura del Presidente della Repubblica e quella del Presidente del Consiglio. Sempre sul Financial Times del 20 gennaio si poteva leggere che “il peggiore risultato sarebbero le elezioni anticipate, che farebbero deragliare il piano di riforma e ripresa dell’Italia. In queste circostanze è meglio avere Draghi alla presidenza” perché così “potrebbe usare i suoi considerevoli poteri e la sua moral suasion” per mantenere l’Italia sulla retta via delle riforme previste nel Pnrr. Al Financial Times si è aggiunto nella stessa giornata il New York Times, che schierandosi per Draghi al Colle raggiunge toni enfatici di involontaria comicità, affermando che “l’influenza di Draghi potrebbe allungare un età d’oro di inusuale unità politica”.

Pochi giorni dopo, sempre sul quotidiano finanziario inglese, compare un articolo a doppia firma, Macron e Draghi, dedicato alla necessità – ovvia ai più – di rivedere il patto europeo di stabilità a fronte di un debito cresciuto enormemente e una “ripresa” da favorire. Ma l’asse Macron-Draghi acquisterebbe in credibilità se fosse meno asimmetrico rispetto ai ruoli e ai poteri dei due protagonisti, quindi meglio Draghi al Colle.

Ma nemmeno al finanzcapitalismo tutte le ciambelle riescono con il buco. Come giustamente sostiene il costituzionalista Francesco Pallante, se fosse prevalso lo scenario di Draghi al Quirinale e a Palazzo Chigi un suo avatar “sarebbe forse più appropriato definirlo iperpresidenzialismo, dal momento che nessun contropotere verrebbe, a quel punto, a configurarsi come bilanciamento all’iperpotere quirinalizio”.

Le sirene del presidenzialismo non hanno certo abbassato la voce, confortate dai sondaggi condotti da Ilvo Diamanti per la Repubblica, come quello del 23 dicembre scorso che riportava come favorevoli alla elezione diretta del Presidente il 74% degli intervistati. Va certamente dato atto a Sergio Mattarella di avere inserito nel suo discorso del 3 febbraio la sottolineatura del ruolo del Parlamento. Ma la personalizzazione della politica è uno degli aspetti della sua crisi, che ha radici abbastanza lontane. Basti pensare alla figura del sindaco eletto in prima o in seconda battuta, in quest’ultimo caso sempre con una minoranza di cittadini votanti, o alla figura del Presidente della giunta regionale, fregiato del nome del tutto improprio di governatore per meglio imprimere nell’immaginario collettivo la centralità monocratica del suo ruolo, potenziato dall’elezione diretta popolare.

Tuttavia il quadro che si viene definendo non contiene elementi solo negativi. L’evidente sgretolamento delle coalizioni ha imposto un ripensamento sulla legge elettorale vigente. E’ in atto un ripensamento a favore di una legge elettorale di tipo proporzionale. E’ bene non cadere in facili ottimismi, ma almeno cercare di infilare un piede nell’uscio che si è dischiuso. L’ipotesi prevalente è di tornare al cosiddetto ‘Brescellum’ (dal nome del deputato proponente Giuseppe Brescia del M5S) o ‘Germanicum’ che dir si voglia, la cui discussione era cominciata in Commissione nel gennaio del 2020 e subito insabbiata.

Ma anche se veramente il Parlamento imboccasse questa strada gli ostacoli da superare non sono pochi. Gli esponenti del Pd in particolare insistono per mantenere lo sbarramento previsto in quella proposta di legge al 5%. E’ evidente, soprattutto con un Parlamento complessivamente ridotto di un terzo dei suoi componenti, che l’asticella sarebbe troppo alta e potrebbe essere scavalcata solo da poche forze. Resta anche il problema delle liste bloccate, solo parzialmente affrontato dai precedenti pronunciamenti della Corte Costituzionale, su cui le dirigenze dei partiti non sembrano volere mollare, e quindi il diritto di scelta sugli eletti da parte degli elettori sarebbe ancora una volta eluso o gravemente limitato. Nello stesso tempo sta riprendendo quota l’apprezzamento per il sistema francese del doppio turno. Stefano Ceccanti del Pd lo vede come “un punto di equilibrio che dia più flessibilità rispetto ai collegi uninominali maggioritari, ma senza rinunciare a proporre maggioranze di governo agli elettori”.

E’ quindi necessario rovesciare il primato della governabilità rispetto alla rappresentanza. Se è giusto affermare che nessun sistema elettorale è perfetto, dopo tanti anni di diminuzione costante della partecipazione al voto ritornare sulla strada del proporzionale è una questione determinante per rianimare la nostra democrazia. Ma non basta. Bisogna affrontare il tema del pessimo stato di salute e del ruolo dei partiti, dei corpi intermedi, delle forme di partecipazione diffusa. Nonché dell’assenza di una forza di sinistra dotata di un chiaro profilo e di una adeguata massa critica. Quanto è accaduto al M5S, con il pesante intervento della magistratura, invita a riflettere sullo stato della democrazia interna alle formazioni politiche, alla negatività delle forme di “democrazia immediata” che passano attraverso un clic sul mouse del computer. Si pone quindi, purtroppo in un quadro deteriorato, il tema non nuovo di dare piena implementazione all’articolo 49 della Costituzione. l

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