Informazione, processi produttivi e cambiamento climatico. Breve reportage sul giornalismo d’inchiesta ambientale italiano - di Fabrizio Denunzio

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Prima parte.

Il criterio da seguire per riconoscere in Italia un’informazione che voglia dirsi ambientalistica è semplice: assumere il cambiamento climatico come la derivata di un soggetto d’inchiesta che rimane il mondo del lavoro. Diversamente, col fare dell’ambiente un predicato autonomo dai processi industriali, ossia una sostanza in sé, un genere specifico di investigazione giornalistica, sicuramente si potranno realizzare lodevoli denunce e invocare prese di coscienza, ma di sicuro non si arriverà mai al cuore del problema: il modo di produzione capitalista.

In questo breve reportage mi propongo di ordinare secondo questa prospettiva analitica alcune inchieste giornalistiche di ieri e di oggi, non solo per fare emergere il loro contenuto informativo rispetto alla questione ambientale, ma soprattutto per rendere quanto più esplicito possibile il metodo che guida i loro percorsi investigativi, e questo perché è anche dal tipo di metodologia impiegata, mai esplicitamente definita dagli autori, che dipende la portata critica complessiva dei risultati a cui esse addivengono.

“Terra bruciata” (2020) è l’ultimo lavoro di uno dei più noti giornalisti d’inchiesta italiani della scena contemporanea, Stefano Liberti, al quale dobbiamo importanti ricerche e denunce sull’immigrazione (“A sud di Lampedusa”, 2011), il furto e lo sfruttamento neocolonialista delle terre da parte delle multinazionali (“Land grabbing”, 2011), la natura del tutto poco naturale dei cibi con cui le grandi catene alimentari si arricchiscono sfamando il mondo (“I signori del cibo”, 2016).

Per quanto la sua esperienza lo abbia posto a contatto diretto coi diversificati meccanismi di sfruttamento del capitalismo globalizzato, documentandone con acutezza orrori e ingiustizie, nella sua inchiesta sulle condizioni ambientali dell’Italia però lo sguardo critico sul sistema di produzione economico cede il posto a una visione più rammaricata per lo stato in cui versano le risorse naturali del Paese, che non sinceramente interessata alle cause che lo hanno generato. Certo l’inchiesta, animata come sempre da impegno civile, non manca di segnalare il problema, di denunciare gli effetti del cambiamento climatico e di interpellare la politica, ma tutto ciò non si sostanzia in una valutazione critica univoca dei diversi fattori in campo, e ciò a mio parere dipende dal modo in cui essa è stata disegnata.

Il fatto che Liberti non riesca ad andare oltre ad affermazioni generiche del tipo “rivedere un modello di sviluppo che ha estratto risorse, sfruttato il territorio”, oppure quando, riferendosi al Delta del Po, parla di un “modello di sfruttamento sconsiderato”, o infine, pensando alla ‘invasione’ delle cimici asiatiche che distruggono i raccolti, invita a rovesciare “il modo in cui si produce, il quanto, il come e il perché”, in breve, che rifugga continuamente dal pronunciare con chiarezza e senza ambiguità il nome di tutto ciò, ossia il modo di produzione capitalista, deriva, oltre a motivi di ordine soggettivo che non si possono valutare, dal metodo di inchiesta utilizzato.

Che quella metodologica non sia una questione di lana caprina estranea all’autore, è dimostrato dal fatto che, giustamente e con orgoglio, Liberti inscrive la sua ricerca nella “inchiesta giornalistica”, ossia in quel modo di raccontare gli aspetti più controversi dei fenomeni sociali affidandosi all’osservazione diretta sul campo, alla consultazione di dati, e all’intervista di quanti siano coinvolti nel processo analizzato.

Sebbene l’inchiesta sia stata svolta prima della pandemia di Sars-CoV-2 e, di conseguenza, prima del varo del Pnrr e dei relativi investimenti che si effettueranno nel settore ambientalistico della transizione ecologica, bisogna dire che il contenuto informativo di “Terra bruciata” è molto ricco, tanto da risultare davvero utilissimo a quanti intendano conoscere per la prima volta le conseguenze del climate change in Italia. Solo pochi esempi: la velocità nel discioglimento dei ghiacciai, uno fra tutti l’aostano Gran Paradiso; il cuneo salino, il mare che nel Delta del Po si sta riprendendo le terre un tempo sottrattegli e ora torna a inaridirle con la sua salinità; la tropicalizzazione del Mediterraneo.

Oltre a fungere da vera e propria agenda setting delle questioni ambientali, l’inchiesta di Liberti fa emergere con forza il tipo di competenze coinvolte nello studio del fenomeno: quasi tutti gli intervistati sono docenti universitari o ricercatori in materie come Ecologia fluviale e Fisica del clima, non mancano ingegneri e architetti, di sicuro nessuno scienziato umano o sociale sembra rientrare tra i testimoni autorevoli di Liberti, il che rappresenta sempre un limite, poiché si relega ad un sistema conoscitivo di natura prevalentemente tecno-scientifica un’area di ricerca che impatta violentemente sulla condizione umana.

Infine, “Terra bruciata” offre un’altra dimensione di estrema utilità, ossia, la rete delle associazioni, delle istituzioni, delle banche dati che intervengono attivamente, e a cui si può fare ricorso, quando si decide di affrontare la questione ambientale: da Legambiente all’European Severe Weather Database.

Il risultato a cui giunge Liberti alla fine della sua inchiesta è quello di vedere l’Italia come una sorta di “hotspot climatico”, ossia un luogo che, a causa della sua posizione geografica, sperimenta tutte le conseguenze disastrose del cambiamento atmosferico, così velocemente riassumibili: il surriscaldamento globale prodotto dall’emissione di gas serra fa sciogliere i ghiacciai velocemente e innalzare la temperatura dei mari facendoli aumentare di volume, nel primo caso si registrano perdite di acqua non più utilizzabile come riserva fossile per le coltivazioni e, nel secondo, un’estensione delle superficie marina che arriva a inaridire terreni prima fertili e che, diventata calda, non solo si tropicalizza rendendo ospitali i suoi fondali a specie che prima non sarebbero riuscite a viverci, ma addirittura non riesce a riossigenare e nutrire la sua stessa vita marina, destinandola nel corso del tempo alla morte. In più, tutto il calore sprigionato dal Mediterraneo influisce sulla determinazione di eventi estremi come tornado improvvisi e inaspettate piogge torrenziali, le tristemente note bombe d’acqua.

Il quadro climatico che si delinea è inquietante: estinzione della stagionalità con il conseguente impazzimento dei cicli naturali di letargia e risveglio delle specie animali (si pensi alle difficoltà ad impollinare che hanno le api con fioriture fuori controllo), siccità, inondazioni, uragani, desertificazione crescente. Il futuro è già qui.

Ora, e con questo arrivo ai limiti metodologici di “Terra bruciata” annunciati all’inizio di questo mio intervento, dovrebbe essere sufficientemente chiaro che a questa situazione non si è giunti nel giro degli ultimi decenni, e che la produzione incontrollata di gas serra, come del resto l’intero inquinamento terreste, sono la cifra distintiva di secoli di attività del modo di produzione capitalista.

Padroneggiare, come del resto fa molto bene Liberti, alcune delle ‘regole’ del metodo sociologico, in primis l’osservazione sul campo e l’intervista, può aumentare il tasso di informazione dell’inchiesta, ma non quello conoscitivo generale dell’oggetto indagato, che può essere raggiunto solo partendo del riconoscimento dell’intrinseca storicità di ogni fenomeno sociale.

Nel caso del cambiamento climatico in Italia questo avrebbe voluto dire, giusto per non far passare l’idea che il nostro territorio abbia subito passivamente l’effetto serra globale non contribuendo per nulla ad incrementarlo, per esempio recuperare le storie industriali e giudiziarie dei poli chimici e siderurgici distribuiti lungo tutto l’arco del paese, da Porto Marghera a Taranto a Siracusa, solo per citare alcuni casi. Recuperando la sua dimensione storica il climate change italiano torna ad affondare le sue radici, a trovare le sue ragioni, nella genesi e nell’evoluzione dei processi produttivi nostrani e a incontrare, con quella ambientale, la sua principale, unica, reale posta in gioco: la salute pubblica di tutti noi.

Da questo punto di vista, non dovrebbe fare meraviglia che, dal disegno dell’inchiesta, “Terra bruciata” abbia espunto tanto la storicità delle questioni climatiche quanto le soggettività della società civile impegnate da tempo nella denuncia degli effetti nocivi del cambiamento climatico. Mentre si troveranno interviste approfondite a grandi imprenditori del vino e della frutta esotica, nessuna è stata fatta a rappresentati del movimento Fridays For Future che ha tra i punti fondamentali del suo programma quello di realizzare la giustizia climatica, ossia “Tutelare i lavoratori e le lavoratrici, i territori e le fasce della popolazione più esposte alle conseguenze della crisi economica e climatica”.

 

Da questa prospettiva, per quanto paradossale possa sembrare, è proprio fornendoci un’accurata inchiesta ambientalistica di questo tipo, nel cui disegno metodologico risultano assenti tanto la dimensione storica dei processi di produzione industriale quanto quella individuale dei soggetti su cui si abbattono le conseguenze più deleterie di tali processi, che Liberti ha mancato una inchiesta ambientalistica.

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