La Bce fa la scelta sbagliata nel momento peggiore - di Alfonso Gianni

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In questi giorni ricorrono insistentemente espressioni, come “la festa (o la ricreazione) è finita”. A parte il fatto che in troppi questo stato di grazia non l’hanno mai visto, è certo che la riunione della Bce tenuta il 9 giugno ad Amsterdam - la capitale della nascente finanza mondiale del ‘600 - ha chiuso un’epoca, ma non in modo glorioso. Quella cominciata con il “whatever it takes” e proseguita con il pompaggio di liquidità, con il denaro che praticamente non costava niente, ove la banca centrale acquistava titoli di stato a go-go, mentre i tassi erano negativi. È la prima grande conseguenza – che non riguarda solo l’Europa – della guerra in Ucraina sull’economia mondiale.

Al Quantitative easing, ovvero alla copiosa iniezione di liquidità che ha ingigantito il bilancio delle banche centrali, subentra il Quantitative tightening (Qt, un’espressione cui ci dovremo abituare) che al contrario restringe i cordoni della borsa. Non si è trattato di novità sconvolgenti. Da tempo se ne parlava, specialmente di fronte a un incremento dell’inflazione che ormai nessuno poteva considerare come temporaneo. Tuttavia i mercati sono entrati in fibrillazione, anche a causa delle dichiarazioni reticenti e poco limpide della Lagarde, da giovane campionessa di nuoto sincronizzato, ma meno abile a muoversi nelle acque agitate della finanza.

Già si sapeva che con l’8 settembre si sarebbe usciti dalla fase caratterizzata da tassi negativi iniziata nel giugno del 2014, tassi che avrebbero cominciato a salire sia a luglio che a settembre. Come pure era noto che il programma di acquisti netti sarebbe terminato il primo luglio. Ma il margine di incertezza lasciato sul secondo aumento dei tassi da realizzarsi a settembre (sarà dello 0,25% o dello 0,50%?), e la vaghezza delle dichiarazioni della Lagarde rispetto alla individuazione di uno strumento anti-spread, hanno prodotto qualcosa che assomiglia di più ad una diffusa paura che a un momento di incertezza. Solo un poco temperata dalla possibilità annunciata di reinvestimento dei titoli acquistati con totale flessibilità, per combattere la “frammentazione” (un altro termine cui si ricorrerà spesso) dei costi di finanziamento dei singoli Stati.

Così lo spread è potuto salire a più di 250, per ridursi poi, pochi giorni dopo, a quasi 200. L’onda è arrivata da lontano. Anche se la Fed americana procede in modo inverso, prima l’intervento sui tassi e poi quello sulla liquidità, la molla è la stessa: l’aumento dell’inflazione, che negli Usa ha sopravanzato le previsioni – per la verità non impossibili – costringendo l’ex presidente della Banca centrale Yanet Hellen ad una pubblica autocritica, e che nell’Eurozona ha superato l’8% e non intende fermarsi.

Di fronte a ciò la Bce ha rimesso in campo la priorità che deriva dalla sua scriteriata primazia della lotta all’inflazione. Il che contraddice il principio che quando l’economia va male i tassi vanno diminuiti per dare ossigeno al mercato, mentre una stretta può essere opportuna se l’economia si surriscalda troppo. Eppure proprio la Bce ritiene che la crescita nell’anno in corso e nel prossimo sarà scarsa, lasciando qualche speranza solo per il 2024. Bankitalia ha rivisto al ribasso, di un punto abbondante, tutte le previsioni di crescita del nostro Pil formulate a gennaio. Questo fa sì che assieme all’inflazione continui il declino dell’economia, e quindi il baratro della stagflazione è sempre più vicino. Il che nel caso italiano è ancora più drammatico. Secondo l’Ocse la crescita potenziale del nostro paese, cioè la condizione del tutto ipotetica in cui lavoro e capitale sono pienamente impiegati, è inferiore a zero.

Con buona pace di Bonomi, che nel frattempo progetta la ricostruzione dell’Ucraina, il contributo del capitale alla crescita è negativo, visto che gli investimenti privati hanno voluto evitare il rischio, che è invece quello che può distogliere il Paese dal suo torpore. Puntare sul contenimento dell’inflazione, anziché su un diverso modello di sviluppo, non potrà che peggiorare la situazione. La guerra serve per rallentare, se non bloccare, le misure contro il cambiamento climatico. Allo stesso modo, malgrado gli orientamenti europei sul salario minimo – che però richiedono un’implementazione - l’insistenza sull’inflazione è funzionale a contenere anche la più timida spinta all’aumento dei salari. Ritorna il tormentone modello anni Settanta sulla spirale prezzi-salari.

Invece servirebbe proprio un largo movimento di massa per imporre un salario minimo e un aumento generalizzato delle retribuzioni, se si vuole che il lavoro diventi protagonista.

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