Dalla baraccopoli al sindacato, la lunga marcia di Bajanky - di Frida Nacinovich

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Si può morire come Yusupha Joof, bruciato in una baracca di lamiere e cartone, in quel luogo invivibile che è il ghetto foggiano di Torretta Antonacci, nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico. Raccoglieva la frutta Yusupha Joof, come tanti suoi giovani connazionali in fuga dalla miseria del loro paese natale, il Gambia, e finito a vivere in due metri per due, con 40 gradi, dopo aver perso il permesso di soggiorno a causa del cosiddetto ‘decreto sicurezza’.

Non dovrebbero esistere luoghi del genere, ma come racconta Bajanky, che di Yusupha era amico, “senza lavoro non puoi avere il permesso di soggiorno, senza il permesso non trovi nessuno disposto ad affittarti casa. Va a finire che non hai scelta, vivi in posti come questi, pur di guadagnare qualche cosa ti adatti a tutto e incontri persone senza scrupoli che ti sfruttano”. Ha 35 anni Bajanky ma sembra un ragazzino, si commuove quando ricorda il fratello che lo scorso 27 luglio gli è stato portato via. “Mi manca. Sono vissuto anche io in quelle baracche, può succedere di tutto, gli incidenti sono sempre dietro l’angolo”.

Oggi Bajanky lavora per due grandi aziende agricole del foggiano: La Futuragri, fondata nel 1991 da un gruppo di soci specializzati nella produzione di asparago verde e pomodori da industria e oggi accreditata al livello continentale per la qualità delle produzioni; e Rosso Gargano, esperta nella coltivazione, raccolta e trattamento di diverse varietà di pomodori pugliesi, il cui motto è ‘Noi li produciamo, noi li trasformiamo’. “Finalmente ho un contratto di lavoro regolare. Ma quanta fatica”, racconta con un sorriso che fa capire quante difficoltà abbia dovuto affrontare.

“Sono arrivato in Italia quasi dieci anni fa, nel 2013 - spiega - La prima città che ho conosciuto è Ravenna, ma lì non riuscivo a trovare lavoro, era molto complicato tirare avanti”. Tre anni dopo la decisione di trasferirsi a Foggia, dove migliaia di giovani africani trovano occupazione nei campi agricoli del Tavoliere, durante le stagioni della raccolta di frutta e verdura. “Ho lavorato nelle campagne, sotto un sole cocente, pagato appena 3 euro l’ora. Ho anche fatto il magazziniere, spostato pancali, ovunque vi fosse da fare qualcosa, andavo. Sono stato perfino in un ristorante, ci passavo l’intera giornata, pranzavo e cenavo con i proprietari. Però mi riconoscevano solo due ore di lavoro al giorno, e così ho perso la disoccupazione”.

La necessità aguzza l’ingegno, e così Bajanky ha chiesto consiglio agli amici e si è rivolto alla Flai Cgil, per riuscire a capire come muoversi nei meandri di una burocrazia che rende ancora più complicata una già difficile integrazione. “Mi erano stati riconosciuti appena 69 giorni lavorativi in un anno e sei mesi di fatiche. I datori di lavoro pretendevano di essere pagati 100 euro per riconoscermi una giornata in più. Mi sono rifiutato e ho cambiato posto”.

Con la tessera del sindacato in tasca si sente rassicurato, nel suo concitato modo di parlare ringrazia dio e la Cgil per aver voltato pagina. “Mi hanno fatto conoscere i miei diritti”. Stagionali come i prodotti della terra, gli appelli sulla mancanza di lavoratori nel settore agricolo arrivano puntuali ogni anno, a fine primavera. Dopo il primo lockdown provocato dalla pandemia, a fine aprile 2020, complice la chiusura delle frontiere e l’impossibilità per i braccianti dell’est Europa tradizionalmente impiegati nella raccolta di raggiungere le campagne italiane, le cooperative e aziende agricole avevano iniziato a lanciare allarmi sulla tenuta del settore.

Quest’anno le frontiere non sono più bloccate, ma la richiesta di braccia non si è fatta attendere, fino al punto di tentare di sbloccare il decreto flussi. “Se le paghe fossero umane, i contratti regolari, ci sarebbero più ragazzi disposti a lavorare nei campi”, commenta Bajanky che dice la sua anche sul diritto di cittadinanza. “Così come è non ha senso”. Rinnovare il permesso di soggiorno dopo il ‘decreto Salvini’ è diventato difficilissimo, un’impresa.

Si scusa dell’italiano incerto, confida di essere un po’ depresso da quando Yusupha non c’è più. Poi però il delegato Flai Cgil insiste a denunciare le insostenibili condizioni di tutti i suoi connazionali che ancora vivono in baracche dove manca tutto, compresa l’acqua quantomai necessaria in estate. “Se si usa il permesso di soggiorno come un ricatto cose del genere possono succedere”, osserva. “Non si vergognano al governo nel vedere come siamo trattati? Siamo noi che raccogliamo la frutta che le italiane e gli italiani trovano sulle loro tavole. Siamo anche noi a mandare avanti questo paese”. Il sindacato di strada, pratica che vede la Flai Cgil in prima fila, è indispensabile per portare alla luce situazioni come queste. “Io ho sofferto, ma tornassi indietro lo rifarei. Tutti noi lo rifaremmo, per dare un futuro migliore ai nostri figli”.

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