L’egemonia della destra tra neoliberismo e false identità - di Gian Marco Martignoni

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Giorgia Serughetti “Il vento conservatore”, editori Laterza, pagine 165, euro 18.

Risale ai primi anni ‘80 l’affermazione di un insieme di forze conservatrici e reazionarie che hanno segnato gli equilibri politici, sociali e culturali sul piano internazionale, con il dispiegarsi a livello dell’economia mondiale di quella “razionalità neoliberale” che ha avuto in Reagan e Thatcher i suoi massimi interpreti. Di quest’ultima rimarrà alla storia la lapidaria espressione “la società non esiste”, poiché il primato dell’impresa e della competitività hanno talmente egemonizzato il discorso pubblico che ogni individuo avrebbe dovuto immaginarsi come imprenditore di sé stesso.

Cosicché lo Stato e qualsiasi idea di solidarietà sono diventati i facili bersagli di questa dilagante egemonia: il destino della società e degli individui doveva essere consegnato alla forza dirimente del mercato. Senonché le contraddizioni provocate dalle crisi ricorrenti della globalizzazione capitalistica hanno prodotto la pericolosa ascesa delle tendenze di destra populista e sovranista, come nei casi eclatanti di Trump, Bolsonaro, Modi, Erdogan, Orban, Meloni, ecc. Con tutte le ricadute che ne conseguono per la tenuta degli equilibri democratici: l’assalto di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 si configura come un imitabile caso di negazione della normale dialettica democratica.

Per approfondire le cause di queste tendenze è assai utile il libro di Giorgia Serughetti “Il vento conservatore”, che da un lato si misura con l’appassionato dibattito sviluppatosi da tempo a livello internazionale, e dall’altro coglie puntualmente il legame tra i fattori economici e culturali che le determinano. Sottolineando però una maggiore rilevanza di questi ultimi. Innanzitutto, per questa ricercatrice in Filosofia politica dell’Università di Milano-Bicocca, non vi è confliggenza, ma semmai affinità, tra il neoliberismo e le forze populiste di destra radicale, che al di là dei proclami contro le élite mondialiste ben si guardano dal criticarne la logica distruttiva (in particolare dei rapporti di lavoro e dei legami sociali, come dell’ambiente naturale).

Che la globalizzazione abbia in sé una dinamica disgregante sul piano delle identità, a partire dalle costanti minacce alla sicurezza dello status raggiunto e dalla mancanza di riconoscimento sociale, è da tempo un dato acquisito. Solo che il disagio identitario viene compensato attraverso la rivitalizzazione di alcuni temi o valori – l’ordine e la difesa dei confini, la famiglia tradizionale, la religione – che il mondo progressista ritiene divisivi rispetto all’evoluzione storica dei costumi. Una divaricazione valoriale che, per Serughetti, si riproduce anche rispetto ad una diversa concezione del popolo, della cittadinanza, dell’eguaglianza e delle diseguaglianze, palesando un conflitto acceso tra ancoraggio alla tradizione di stampo gerarchico e spirito innovatore ed emancipatorio. Tanto che un sociologo come Colin Crouch sostiene che in forme nuove si ripropone lo scontro secolare tra i valori dell’ancien regime e quelli dell’illuminismo.

Al contempo si tratta di comprendere perché i “perdenti della globalizzazione”, che contemplano anche consistenti fasce di ceto medio sulla strada del declassamento sociale, scaglino il loro risentimento contro i migranti e le invise politiche dell’accoglienza, mentre acclamano il leader forte, manifestando un senso di appartenenza in antitesi a quello classista di ispirazione marxista. Una identità di classe invero drammaticamente frantumata e indebolita, dal passaggio dal lavoro a tempo indeterminato dei “ trent’anni gloriosi” alla condizione post-moderna di precarietà selvaggia, ben analizzata nel volume collettaneo “Homo Instabilis” (a cura di Mario Aldo Toscano, Jaca Book 2007).

Quindi, se è vero che le destre populiste e sovraniste tendono ad esaltare un comunitarismo escludente, che contrasta l’accesso ai diritti di cittadinanza delle popolazioni migranti, mettendole in contrapposizione con le fasce più impoverite della società, vi è qualcosa di più profondo che ha permesso la penetrazione del loro discorso reazionario. Infatti, nel recente dibattito post-elettorale, due intellettuali come Tonino Perna e Giovanni Orsina hanno individuato nella mercificazione di tutte le relazioni sociali e nell’incertezza del futuro gli elementi scatenanti di determinati orientamenti.

Vale la pena riflettere sui loro messaggi, per disporre di ulteriori chiavi di lettura della realtà. Per il sociologo calabrese “il capitalismo ha tolto qualsiasi senso alla vita della maggioranza della popolazione che lavora per sopravvivere, se ci riesce. Scomparsa la coscienza di classe, si è aperto un vuoto identitario, che è stato riempito dall’immaginario della destra” (il manifesto 29 ottobre). Diversamente per lo storico romano “la concezione progressista della storia non regge più, per cui molti non credono che la storia abbia una logica e una direzione, è quindi perché sono spaesati e angosciati dal futuro che gli elettori votano a destra” (La Stampa 23 ottobre).

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