Martina Pignatti, ‘Un ponte per’: “Tacciano le armi, lo chiedono i popoli, non i filoputiniani” - di Frida Nacinovich

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Costruiscono ponti, non muri. Non è un caso che si chiamino ‘Un ponte per’, associazione nata all’epoca della prima guerra del Golfo e da allora impegnata in tanti teatri di conflitto, dal Medio Oriente ai Balcani, fino all’Ucraina di oggi. Carovane umanitarie che sfidano le guerre, percorrendo migliaia di chilometri per dare aiuto a popolazioni stremate da quelle autentiche pestilenze che sono i conflitti armati. All’interno dell’associazione, Martina Pignatti Morano è la direttrice dei progetti di aiuto. Il 5 novembre l’abbiamo incrociata fra i mille arcobaleni di pace nelle strade e nelle piazze di Roma.

 

Come può la politica continuare ad essere sorda, di fronte ai continui appelli del popolo della pace?

“Credo che la politica debba per forza ascoltare una manifestazione di queste dimensioni. Una manifestazione che ha mandato un messaggio molto chiaro. Tutti i partecipanti, singoli e organizzazioni, soprattutto tutti e tre i sindacati confederali - perché Landini della Cgil ha parlato a nome anche di Cisl e Uil - ritengono che i negoziati debbano iniziare subito. Quindi non c’è una precondizione di ritirata delle truppe russe, così come non c’è la necessità di continuare a combattere prima di iniziare a trattare. La piattaforma della manifestazione era chiara, come era chiara la richiesta all’Italia di aderire al trattato per la proibizione delle armi nucleari. Una presa di posizione che però mette in discussione i patti con la Nato, e proprio questa è la ragione per cui l’Italia ancora non ha aderito al trattato. Ma la richiesta è forte. Abbiamo appena partecipato al ventennale del Forum sociale europeo, a Firenze, allora fu convocata la grande manifestazione del 2003 contro la guerra in Iraq. C’è tantissimo interesse da parte delle altre organizzazioni, degli enti sociali di tutta Europa sul processo che aveva portato noi italiani a dare vita a quella manifestazione. E c’è l’intenzione di fare iniziative analoghe in altri paesi d’Europa, da parte della società civile e democratica di area progressista. Non dalle destre. Se non riusciamo a prenderci la scena, il pericolo è che ci venga rubata dalle destre”.

 

Domanda d’obbligo: hanno accusato anche ‘Un ponte per’ di putinismo?

“Siamo sempre stati coerenti nel denunciare, ancor prima che scoppiasse questa guerra, il fatto che l’Italia continuasse a esportare armamenti. Al riguardo anche il governo Renzi si è macchiato di gravi responsabilità. Da parte nostra abbiamo continuamente denunciato le violazioni dei diritti umani in Russia nei confronti degli obiettori di coscienza, degli attivisti Lgtbq, dei giornalisti. Dunque non c’è niente nella nostra condotta che possa prestare il fianco alle accuse di filoputinismo. Anzi. E devo aggiungere che mentre in altri paesi europei, penso alla Spagna, effettivamente esiste una sinistra filoputiniana, in Italia è assolutamente residuale, non fa numero, non fa rumore. E se viene strumentalizzata da giornalisti e commentatori politici, è per loro malafede. Non certo per un’oggettiva forza, dentro un movimento contro la guerra, di chi simpatizza per istanze putiniane”.

 

Gira e rigira si torna sempre al solito interrogativo: inviare armamenti, anche a chi è stato invaso, serve solo ad alimentare nuovi lutti e nuove devastazioni?

“Su questo punto in Italia c’è una legge, una delle più avanzate a livello europeo, che proibisce di esportare armamenti verso paesi in guerra o paesi che portano avanti massicce violazioni dei diritti umani. Nel dire basta armi, ci rifacciamo semplicemente ad una legge approvata dal Parlamento, la 185 del 1990. Fino ad ora sono state solo due le eccezioni esplicite, in cui al Parlamento è stato ufficialmente chiesto di eccepire alla legge: quando sono state mandate le armi nella zona del Kurdistan iracheno per combattere contro Daesh, il cosiddetto stato islamico, e adesso per l’invio delle armi all’Ucraina. Sappiamo che ci sono state molte altre operazioni di questo tipo, basti pensare all’Egitto, ma non sono state presentate come tali davanti al Parlamento. Noi rimaniamo convinti - e l’abbiamo visto succedere - che l’invio di armi in zone di guerra contribuisca all’escalation della violenza armata, e non sempre a favore di chi ci piace, dei più deboli, di chi ci sta simpatico. Anche perché le scelte sono condizionate da altre dinamiche, e non puoi aver la certezza di sapere in che mani finiscono le armi che hai inviato. C’è il fenomeno della triangolazione, per cui armi vendute a una componente militare dopo qualche tempo possono finire sul mercato nero, a disposizione del maggior offerente. In più ci sono i casi come l’Afghanistan, dove abbiamo visto, il mondo intero ha visto, che armi consegnate alle forze di polizia e all’esercito afghano sono finite in mano ai talebani. Quindi quale altra dimostrazione più esplicita dell’Afghanistan ci serve per dire che questa strategia di gestione, di resistenza all’occupazione, è fallimentare? Purtroppo i danni sono sempre pagati dagli ucraini. Gli ultimi numeri sui soldati morti dal fronte ucraino, che si pensava fossero molti meno, sono invece analoghi alle perdite militari russe. Sono cifre veramente scoraggianti”.

 

Cosa hai visto quando sei arrivata in Ucraina con la carovana umanitaria di cui ‘Un ponte per’ fa parte?

“Una delle scene più strazianti era quando prendevo il treno per arrivare a Kiev e vedevo i soldati che salutavano le famiglie, le madri, le mogli, i bambini, mentre partivano per andare sulla linea del fronte. È stato veramente doloroso. Siamo andati a portare aiuti e a stringere accordi di collaborazione con associazioni ucraine che si occupano di educazione alla pace, coesione sociale, resilienza al trauma soprattutto da parte dei più giovani, formazione sulla gestione non violenta dei conflitti per gli operatori dei centri giovanili ucraini”.

 

Come riuscire a rafforzare la cultura della pace, in un mondo che continua imperterrito a seguire la logica delle armi?

“Abbiamo portato aiuti umanitari con la carovana ‘Stop the war now’, e abbiamo deciso di concentrarci su un intervento di ‘peace building’, di sostegno agli attori della società civile che lavorano per la costruzione della pace, intesa come coesione sociale interna all’Ucraina, per prevenire ad esempio episodi di odio, linguaggio dell’odio, discriminazioni di chi parla russo e via dicendo. Ma anche per sostenere gli obiettori di coscienza su entrambi i fronti. Aiutarli ad esempio nella difesa legale, perché chi è obiettore viene spesso accusato di essere un traditore della patria, anche se lo fa e dichiara di farlo per motivi religiosi. E poi aiuti concreti a chi mette in piedi vere e proprie azioni di resistenza non violenta sui territori occupati. Chi si rifiuta di collaborare con l’esercito russo, con le autorità controllate dagli occupanti russi, adotta quella che è per noi la strategia vincente. Nessuno può occupare un’area così grande, ampia del paese senza il consenso della popolazione. Se la popolazione si organizza per non consentire di essere governata da autorità occupanti, l’occupazione non funzionerà. C’è chi lo fa, e c’è anche chi chiede aiuto”.

 

Una vostra campagna rilevante è ‘Proteggi e sostieni i costruttori e le costruttrici di pace in Ucraina e in Russia’.

“‘Un ponte per’ sta lavorando per proteggere gli obiettori di coscienza. Al tempo stesso stiamo fornendo le risorse necessarie ai Costruttori e alle Costruttrici di pace. Si tratta di giovani studenti e studentesse, volontari e volontarie, insegnanti, prèsidi, piccoli gruppi che si organizzano spontaneamente a livello locale per fare resistenza civile e nonviolenta e che hanno bisogno di formazione, mezzi tecnici, affiancamento, aiuti umanitari, supporto psicologico. Noi siamo convinti che la società civile, la popolazione che crede nei diritti umani e nella pace, possa esercitare con forza il suo punto di vista e promuovere gli interessi che sono quelli appunto del rispetto dei diritti umani, con mezzi non violenti. Vogliamo fare tutto il possibile, anche in situazioni di conflitto armato, prima durante e dopo il conflitto armato, per dare voce a queste forze. E questo lo fai con progetti di pace. Cercando di far diminuire il più possibile, il prima possibile, l’intensità del conflitto armato”.

 

Cosa vogliamo dire del sistema della comunicazione e dell’informazione, che per mesi ha sposato acriticamente le spinte belliciste?

“C’è una retorica spaventosa sui media italiani ed europei a favore della conduzione militare di questo conflitto che ci preoccupa enormemente, proprio per la qualità della nostra informazione. E noi a questo abbiamo contrapposto la nostra ricerca di dialogo con gli ucraini. Per sfidare la vulgata del 'se chiediamo la pace chiediamo la resa dell’Ucraina', abbiamo deciso di costruire il pacifismo su questo fronte dialogando con gli ucraini. Per questo ci siamo andati già quattro volte con diverse delegazioni. E devo dire che anche gli ucraini che non sono d’accordo con noi, e che pensano sia necessario combattere e che le armi siano la priorità, rispettano moltissimo il nostro punto di vista. E concordano sul fatto che comunque la comunità internazionale dovrebbe dedicare molte più risorse agli aiuti umanitari, e dare sostegno ai progetti di pace. Perché sono cifre modeste rispetto a quelle che vengono stanziate in armamenti. Ma sono essenziali per salvare vite umane. È un fatto che la comunità internazionale non riesca a soddisfare i bisogni umanitari essenziali dell’Ucraina, i dati sono stati analizzati dall’Onu che ha rilevato come il piano di risposta umanitaria sia decisamente sottofinanziato. Dare priorità alle armi rispetto alla sopravvivenza delle persone è scandaloso”.

 

L’Europa dei popoli resta solo una buona idea, come ebbe a dire il mahatma Gandhi?

“Visto che non riusciva a mettere d’accordo gli Stati che ne fanno parte, e visto che comunque tutti i paesi più ‘forti’ erano abbastanza in linea con la visione nord americana, l’Unione europea ha deciso di accodarsi a Biden. E quindi l’Europa ha fatto gli interessi degli Stati Uniti, contro gli interessi europei. Questa è la cosa più sorprendente, perché tu puoi ritenere politicamente che ti convenga schierarti dalla parte degli Stati Uniti, ma questa volta non conveniva. È l’ennesimo segnale della debolezza politica dell’Unione europea, e della necessità per noi cittadini europei di spingere per una riforma dell’Unione. Ne abbiamo assolutamente bisogno. Credo debba essere una priorità per tutti noi, associazioni e cittadini che crediamo in un futuro di pace”.

 

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