Il Pci è morto e anch’io non mi sento molto bene - di Piergiorgio Desantis

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Che fine hanno fatto la classe operaia e il suo partito di riferimento dopo cento anni?  

Il 21 gennaio del 1921 è una data che ancora evoca emozioni e passioni forti, ed è significativa non solo per gli storici ma anche per i militanti politici e sindacali (esistono ancora!) che credono al conflitto capitale/lavoro. È un passaggio imprescindibile per tutti perché, al Teatro San Marco di Livorno, iniziò una gloriosa storia: quella del Partito comunista d’Italia.

La nascita del partito si contraddistinse per le variegate e piuttosto eterogenee componenti che vi confluiranno: da quella di Amedeo Bordiga (gli astensionisti), a quella di Gramsci, Togliatti (gli ordinovisti), fino ai massimalisti terzinternazionalisti. In ogni caso, il distacco dal Partito socialista fu piuttosto difficile e controverso. A tal proposito Camilla Ravera, che era presente, ricorderà: “La scissione non era avvenuta in modo soddisfacente neppure per Gramsci, che la giudicò ‘un trionfo della reazione’” (Camilla Ravera, Diario di trent’anni 1913-1943, Editori Riuniti 1973, pagina 89).

È bello qui ricordare che la Federazione della gioventù socialista di quegli anni, allora egemonizzata (è il caso di dirlo) dal gruppo di Gramsci, passò in blocco nel nascente PCd’I. Quella “meglio gioventù” visse e combatté il fascismo al confino, nelle carceri, nelle città e campagne e anche all’estero. Quella generazione fu anche la classe dirigente che contribuì a scrivere la Costituzione repubblicana. Quella stessa generazione partecipò attivamente alla ricostruzione dell’Italia, e fu l’ossatura del movimento operaio e democratico nel secondo dopoguerra.

Tra quegli uomini e donne, si ricordano innumerevoli figure (piccole e grandi) tra cui quella di Palmiro Togliatti, di Luigi Longo, di Giorgio Amendola, di Pietro Secchia e Teresa Noce. Si fa certo un grande torto a citarne solo alcune, ma resta il desiderio di ricordarle tutte senza scordarne nessuna. Pur con sensibilità a volte diverse, tutte hanno contribuito a costruire quel grande intellettuale collettivo, che poi diventerà il più grande Partito comunista d’occidente.

Il rischio di oggi, anche per chi ha una prospettiva di classe, è quello di sfociare nella retorica vuota e con la testa rivolta al passato glorioso che non c’è più (ormai da tempo). Sono passati cento anni precisi da quel gennaio del 1921, ma si può avvertire una distanza non solo temporale ma anche politica rispetto a quegli uomini e a quelle donne.

Ma tutto è davvero cambiato? Che fine ha fatto la classe di riferimento? A tal proposito, secondo una vulgata proveniente da una visione economica classica distorta, la classe dei lavoratori e delle lavoratrici italiane sarebbe estinta, evaporata a favore del terziario, dei servizi e del grande mondo oscuro delle partite Iva. Invece è ormai pacifico che il perimetro degli operai e di tutto il lavoro dipendente (o falsamente libero professionista) si estende e non si contrae, soprattutto a livello mondiale. Anche in Italia il numero si espande, mettendo in atto uno spostamento oggettivo tra comparti produttivi. C’è, da tempo, un travaso di lavoratori dalla manifattura classica verso i settori più precari e a basso valore aggiunto (logistica e cura della persona, solo per fare un paio di esempi).

Nonostante la crisi conclamata del capitalismo italiano, accelerata e ampliata da ciò che è stata la diffusione da epidemia Sars-Covid19, la sinistra politica è afona, anzi è praticamente assente non solo nelle aule parlamentari ma anche nel paese stesso. Come ha già detto molto bene il professor Emiliano Brancaccio: “[…] la politica risulta oggi totalmente refrattaria a reali proposte di progresso sociale e civile perché manca un movimento del lavoro organizzato. In questo, secondo me, sta il nodo strutturale del nostro tempo: nell’assenza di un’organizzazione politica del lavoro” (E. Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala: crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi editore).

Ecco perché oggi è ancor più importante il ruolo svolto dal sindacato e dalla Cgil in particolare. Sarà importante continuare a essere vettore e organismo intermedio delle istanze della classe lavoratrice. Sarà interessante indagare anche l’esperienza anglosassone delle Trade Unions, o quella della partecipazione attiva di origine centro europea per intraprendere un percorso autonomo che affondi nella società e nei bisogni delle nostre classi di riferimento. È necessario che il mondo delle lavoratrici e dei lavoratori italiani riprenda ad avere voce. Proviamo a sillabare insieme.

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