Sostenere la mobilitazione popolare contro il colpo di Stato in Birmania - di Cecilia Brighi

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Aung San Suu Kyi, accusata negli ultimi tre anni da media e grandi organizzazioni per i diritti umani di connivenza con i militari, è di nuovo nell’occhio del ciclone. Un colpo di Stato militare ha spazzato via il parlamento democraticamente eletto, arrestando la Lady, il Presidente della Repubblica e oltre 350 persone: tutti i ministri del governo ancora in carica, i “governatori” delle sette Regioni e dei sette Stati, parlamentari locali, giornalisti e attivisti, lavoratori e lavoratrici. Solo questo gravissimo ritorno indietro di dieci anni dimostrerebbe quanto sbagliati fossero gli attacchi nei confronti della Lady. La Birmania è il paese con la più lunga guerra civile al mondo. Da decenni i gruppi etnici armati si sono scontrati prima con gli inglesi, poi con i giapponesi ed infine con l’esercito birmano.

A leggere i documenti pubblicati dallo State Administrative Council (Sac), il nuovo organismo di governo della giunta militare, il colpo di Stato è stato attuato nell’ambito degli spazi della Costituzione, quella voluta e imposta con la forza dai militari nel 2008.

La Birmania è un paese strategico negli equilibri geopolitici dell’area. Compressa tra due giganti, India a Cina, piena di ricchezze naturali come gas, petrolio, rame, oro, metalli rari, pietre preziose, è vittima della sete di risorse ma anche della necessità di accesso al mare dei due grandi players asiatici.

Le elezioni dell’8 novembre 2020 hanno sancito la vittoria schiacciante dell’Nld, il partito di Aung San Suu Kyi, che ha incassato 396 seggi contro i soli 33 del partito dei militari. Questi godono, grazie alla loro Costituzione, di una presenza in Parlamento pari al 25% dei seggi. Percentuale che impedisce qualsiasi cambiamento della Costituzione senza il consenso militare.

Con le ultime elezioni i generali birmani sarebbero rimasti a fare le vestali della Costituzione, ma non avrebbero toccato palla su nessuno dei disegni di legge in programma, dalla riforma della legge sul traffico di stupefacenti alle leggi sulla trasparenza della governance delle imprese (le grandi holding in mano ai militari in tutti i settori, a partire dal gas e petrolio, sono tutto tranne che trasparenti); la valutazione di impatto sociale e ambientale, tutte norme che imporrebbero alle imprese militari, ma anche a quelle cinesi, di comportarsi secondo gli standard internazionali.

Poi c’è il fattore “potere personale”. Min Aung Hlain, il comandante in capo delle forze armate, che sarebbe dovuto andare in pensione a luglio, passibile di arresto in quanto accusato dalla Corte di Giustizia Internazionale di crimini di guerra, si è visto rifiutare la richiesta di nomina a Presidente della Repubblica. Così tre grandi interessi si sono coagulati e hanno prodotto il colpo di stato.

Ormai dal 1° febbraio scorso tutti i lavoratori e le lavoratrici delle fabbriche, delle banche, degli ospedali e dei ministeri sono in sciopero. Grandi manifestazioni attraversano quotidianamente le città. Gli aeroporti sono sostanzialmente chiusi. I sindacati dei ferrovieri hanno bloccato i treni. I lavoratori bancari le banche, quelli dei servizi pubblici gli uffici ministeriali. Il personale sanitario ha bloccato gli ospedali garantendo solo le emergenze. Gli studenti, le casalinghe, tutti sono da giorni mobilitati contro i militari. Circa 23mila detenuti sono stati liberati, con l’obiettivo di scatenare rivolte e creare caos. Molti hanno girato per le strade la sera armati di bastoni, coltelli, droghe, e tutto l’occorrente per provocare la popolazione che protesta pacificamente.

Le nuove disposizioni di legge prevedono l’arresto per chi si riunisce in più di cinque persone, i lavoratori e le lavoratrici delle zone industriali sono minacciati di licenziamento. E il sindacato, che sta organizzando le proteste, sta elaborando una nuova strategia per far resistere il movimento più a lungo possibile, e chiede il sostegno internazionale

Cosa fare? I movimenti di massa, specie nei paesi più poveri, hanno poco tempo di fronte a loro. I salari bassissimi, i ricatti delle imprese e ora dei militari rendono la vita degli oppositori complicata. Le istituzioni internazionali devono agire al più presto con l’adozione di sanzioni mirate, che colpiscano gli interessi economici e finanziari dei militari. Lo stesso vale per la Ue.

Non c’è molto tempo, la mobilitazione internazionale farà la differenza. Il sindacato birmano ha bisogno di sostegni politici ed economici. Bisogna raccogliere fondi e farli pervenire a chi è in lotta per garantire le mobilitazioni, ma anche il cibo a chi sciopera.

“Italia-Birmania. Insieme” sta lavorando con le organizzazioni sindacali e politiche birmane, per individuare le migliori modalità di soluzione di questa complessa tragedia. Perché finalmente, messi fuori gioco i militari, il difficile processo di transizione alla democrazia, riprenda il suo cammino. Il contributo e l’impegno di tutte le istituzioni, delle organizzazioni sindacali, sociali ed economiche birmane e internazionali potranno contribuire a fare la differenza.

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