Una lettura politica del governo Draghi - di Roberto Giordano

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Riceviamo e pubblichiamo

èdifficile proporre analisi politiche calate esclusivamente sul contingente, su quello che accade nell’immediato. Per questo non si può parlare del governo Draghi se non si parte almeno dall’epilogo del governo Conte, e dal ruolo svolto da Renzi. Rispetto a questo, non credo si possa parlare esclusivamente di ambizioni politiche e personali del capo di Italia Viva. Credo, viceversa, che il nostro si sia fatto scientemente strumento. Per dirla con il colonnello Kurtz di Apocalypse now, Renzi ha svolto il ruolo del “garzone di bottega che è stato mandato dal droghiere a incassare i sospesi”.

Un droghiere che sta in Italia, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Che non tollera più di tanto le anomalie al sistema (il M5S) e che continua ad avere come obiettivo prioritario quello della crescita economica, intesa come fine e non come strumento. Che poi questa crescita crei disastri sociali e ambientali è un di cui; che porti ad una concentrazione della ricchezza senza precedenti e ad un aumento progressivo della povertà, che si fondi sulla progressiva finanziarizzazione dell’economia, non è poi così rilevante. Quello che rileva è la sopravvivenza di un sistema che consenta tutto ciò, non che lo metta in discussione. Ma per fare questo è necessario intervenire per evitare di segare il ramo sul quale si è seduti.

Provo a spiegarmi meglio. È un errore pensare che Draghi sarà uguale a Monti, ossia che porti alle stesse politiche. E non perché il secondo sia meglio del primo, ma semplicemente perché in questa fase sono necessari strumenti espansivi che consentano la ripresa, di curare il malato tenendolo in vita. In Europa il malato è l’Italia (ma non solo) e il dottore è la Germania. Questo vale anche per la mutualizzazione del debito, da cui discende il Ngeu, e rispetto al quale varrebbe la pena riprendere l’intervista a Emiliano Brancaccio, pubblicata su il manifesto del 9 febbraio scorso.

Insomma è evidente che il nuovo governo deriva dal riposizionamento dei poteri all’interno dell’Europa e non solo. Così come è evidente che la maggioranza che sostiene quel governo è ancora quella del governo precedente, sommata ai voti di Forza Italia e Lega. Se si conservasse un minimo senso strategico, si potrebbe interpretare tatticamente il passaggio del governo Draghi, consapevoli di avere ancora una maggioranza parlamentare (assoluta alla Camera e relativa al Senato) in grado di orientare le scelte del governo stesso. Consapevoli che diventa sempre più necessario riconnettersi alla parte della società che si vuole rappresentare, nella prospettiva di una trasformazione dei rapporti di forza in campo.

Questo perché è vero che la politica oggi è isolata dentro i palazzi. Ma è altrettanto vero che a sinistra, nella società, non c’è una spinta di sostegno o di orientamento utile per la politica. Complice la pandemia, non registriamo blocchi sociali in grado di esercitare una adeguata pressione in nessun senso. E i movimenti, che certamente sono vitali nel Paese, ancora non sono in grado di esercitare quel ruolo di sollecitazione di cui la politica avrebbe bisogno. Questo vale per il mondo dell’associazionismo e vale per le grandi organizzazioni di massa come i sindacati.

La sconfitta subita con la fine del governo Conte – perché di questo si tratta – deve farci riflettere su quello che è possibile fare subito, tatticamente, e quello che deve essere fatto in prospettiva, in senso strategico. La seconda questione è quella più complessa, più delicata, perché attiene alla capacità di fornire un ombrello ideologico (oltre che ideale) all’interpretazione del reale. Ma la prima questione è quella che rischia di essere dirimente, nel senso che se si frammenta l’alleanza M5S-Pd- Leu rischiamo di essere rimandati alla casella di partenza. Per qualcuno, a sinistra, potrebbe essere un’opportunità. Per me sarebbe la riprova dell’incapacità a leggere i fondamentali della politica.

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