Il governo Draghi: la svolta di cui non avevamo bisogno - di Zaccarias Gigli

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Da poche settimane si è formato il governo guidato da Mario Draghi, con una variegata maggioranza dalla Lega a Leu passando per Fi e Pd. La maggior parte dei media ha applaudito a questo nuovo esecutivo, lodando l’arrivo dei “competenti”. Tanti si sono affrettati a dipingere il nuovo premier come l’unica personalità capace di tirare fuori l’Italia dalla crisi causata dal Covid-19.

Ad uno sguardo più attento si può vedere come il nuovo premier non sia proiettato al futuro, ma alla contemporaneità. Il discorso programmatico ha una chiara matrice ordoliberale. Se si legge il testo della lettera Draghi-Trichet del 2011 affiancandolo al discorso programmatico, gli obiettivi sono gli stessi e si rifanno alla dottrina economica professata da Röpke e Erhard.

Per esseri brevi, la scuola di Friburgo sosteneva che il mercato del lavoro andasse reso efficiente con regolamentazioni chiare sull’impresa e sul commercio, una politica fiscale di pareggio di bilancio, una politica monetaria guidata da una banca centrale indipendente con il compito di tenere bassa l’inflazione e di mantenere stabile la moneta, privatizzazione dei servizi e dei beni pubblici per mantenere alto il livello di concorrenza e, non ultimo, un minimo livello di redistribuzione del reddito attraverso una tassazione progressiva, e se necessario un salario minimo per tenere basso il livello di conflitto sociale.

Sono idee divenute centrali nell’Unione europea, di cui Draghi è stato uno dei più attenti tecnocrati. Si pensi al Trattato di Maastricht del 1992 e soprattutto alla Costituzione del 2005, poi diventata il Trattato di Lisbona, il cui articolo 3 delinea l’obiettivo dell’Ue come “una economia sociale di mercato altamente competitiva”, col riconoscimento delle quattro libertà del mercato interno (delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali) come diritti fondamentali dei cittadini europei.

Se leggiamo con queste lenti il discorso programmatico le connessioni con l’ordoliberalismo appaiono chiare. Nel discorso di Draghi infatti si trovano passaggi sulla certezza delle norme e la concorrenza, sul fisco, sulla riforma della Pubblica amministrazione e sulla scuola, enfatizzando il ruolo delle scuole tecniche. Un discorso che indica il fine di ancorare l’Italia alla solida base europeista, ma non i mezzi.

Sulla scuola, la preminenza del tecnico significa quella formazione capace di creare una classe lavoratrice adeguata alle competenze richieste dalle grandi imprese, sviluppando la competizione diffusa e politiche di salari contenuti. Il tutto in un’Italia dove ci siano regole e norme certe che mettano in sicurezza il meccanismo della concorrenza che, a detta di Draghi, non è stato abbastanza tutelato nel nostro paese.

Sul fisco Draghi, come anche Monti nel 2011, annuncia una riforma in stile Danimarca 2008, dunque una tassazione progressiva e l’alleggerimento del peso sui redditi da lavoro. Il tutto da affidare ad una commissione di esperti. Posizione che si rifà esplicitamente alla lezione di Giavazzi e di Alesina, i due economisti che avevano scritto “il liberismo è di sinistra”, e che sono stati tra i più autorevoli propugnatori dell’austerity “espansiva”, per cui il taglio della spesa pubblica alimenterebbe la crescita economica.

Il passaggio che mostra il volto più neoliberale di Draghi è quello sulle imprese “decotte”, in cui afferma che lo Stato sosterrà solo le imprese sane e tutelerà i lavoratori, ma non il lavoro. Schema che favorisce le grandi e medie imprese e metterà ancora più in crisi l’artigianato e la piccola impresa. Lo schema anche qui risulta essere quello del “debito buono” e “debito cattivo”.

Non si esce da questo schema neanche sulla Pubblica amministrazione, che deve essere resa più efficiente e capace di eliminare tutti quegli impedimenti che non permettono all’impresa di poter agire in tempi veloci per mantenere alto il livello di concorrenza.

In sintesi siamo dentro ad uno schema ordoliberale, in cui la politica dello Stato è quella di un giardiniere che deve tagliare tutti quei rami vecchi che non permettono alla concorrenza e alla competitività di avere terreno fertile. Il governo di Draghi è un governo delle élite, che pone al centro il ruolo della competenza: infatti, nei ministeri chiave per i fondi del Recovery Plan ci sono tecnici.

Per la sinistra è sempre più necessario avere la forza di pensare ad un nuovo modello politico, che abbia al centro il ruolo attivo dello Stato, dove, attraverso una politica industriale mirata, si possa arrivare alla piena occupazione e al rilancio economico del Paese. Utilizzare la spesa pubblica per costruire un’Italia diversa, più sostenibile, ambientalmente e socialmente più equa. Dove i settori cardine siano nazionalizzati per difendere l’interesse nazionale. Con una vera riforma fiscale che faccia una revisione dell’Irpef e dei relativi scaglioni, e dia priorità a misure che limitino la rendita immobiliare con una patrimoniale, a cui segua una redistribuzione verso il basso. Serve un cambio di passo deciso e un netto cambio di rotta.

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