Amministrazione Biden: continuità nella politica imperialista USA - di Andrea Montagni

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Il giudizio sulla politica estera statunitense non è legato ad una valutazione della natura dei regimi politici dei paesi verso i quali gli Usa manifestano ostilità. Questo approccio alla politica estera degli Stati uniti è esattamente come i governanti degli Stati uniti vorrebbero fosse letta la loro politica estera.

Un giudizio critico o negativo sulla politica estera statunitense non comporta un giudizio positivo o benevolo su regimi autoritari come quello russo – una repubblica presidenziale con un forte accentramento di poteri, espressione di una borghesia rapace nata in seno all’oligarchia dopo il crollo dell’Urss – o quello della Birmania, un regime militare nazionalista e sanguinario che affonda le proprie radici in un colpo di Stato e una guerra civile contro le forze democratiche, i comunisti e le nazionalità minori, protrattasi fino alla fine degli anni ‘80.

La bussola della politica estera degli Stati uniti sono i propri interessi imperialisti di controllo e dominazione in un’epoca, la nostra, nella quale la supremazia Usa – che gli Stati uniti pensavano di aver conquistato con la dissoluzione dell’Urss – è invece stata messa in crisi dall’affacciarsi di nuove potenze regionali.

Non è un caso che, dopo il 1991, si sia accentuato l’interventismo americano, che le guerre locali abbiano assunto sempre più dimensioni internazionali, e che questa instabilità abbia prodotto il fenomeno allora inedito della guerra “asimmetrica”, con la nascita del terrorismo internazionale con il quale forze emergenti affermano la loro presenza nello scenario internazionale.

Molti osservatori, specie nel campo progressista, dopo la vittoria di Biden alle presidenziali americane del 3 novembre 2020, tanto più dopo il tentativo delle forze più apertamente reazionarie degli Stati uniti di rovesciarne il verdetto, culminato nell’assalto alla sede del Congresso il 6 gennaio, e l’insediamento dello stesso Biden il 20 gennaio, davano per scontato un cambio di passo positivo della politica statunitense.

In politica interna questo passo si è visto, nella campagna di vaccinazioni che sta coinvolgendo celermente tutta la popolazione – nonostante un sistema sanitario classista e privatizzato - nei provvedimenti a sostegno dei lavoratori. Lo si è visto nella legislazione a favore del diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacati (il “Pro Act” favorisce la sindacalizzazione e i diritti dei lavoratori). Lo si vede nell’appoggio dello stesso Biden alla lotta per la sindacalizzazione del colosso Amazon (su questi punti si veda l’articolo di Peter Olney e Rand Wilson). Lo si è visto nell’impegno antisuprematista e antirazzista sia verso i neri che i latini, ma anche verso gli asiatici che sono diventati, più degli stessi neri, un bersaglio dopo la campagna di Trump contro il “virus cinese” e i cinesi che uccidono l’economia Usa…

Ma in politica estera questo sforzo di unire il Paese si traduce in una aggressività rinnovata e, contrariamente alle aspettative, anche nei confronti dei Paesi latinoamericani. Nel giro di pochi giorni sono state confermate le sanzioni verso il Venezuela, sono state fatte dichiarazioni a sostegno dei golpisti boliviani (oggi sotto processo nel loro Paese dopo il ripristino della democrazia). Ma il “clou” è stato raggiunto nel giro di due giorni, il 17 e 18 marzo, prima con le dichiarazioni dello stesso Biden in un’intervista televisiva sul presidente russo Putin: “E’ un assassino” (la dose è stata rincarata a freddo tre giorni dopo dalla vicepresidente Kamala Harris che ha risposto al nostro Fabio Fazio che chiedeva lumi: “Perché lo è!”). E poi ad Anchorage, nel primo incontro tra i ministri degli esteri dei due Paesi, quando il segretario di Stato, Antony Blinken, ha accusato Pechino di “minare la stabilità mondiale”. Un’affermazione gradita da Joe Biden, che si è detto “orgoglioso” del capo della diplomazia americana.

Vale la pena ricordare che, mentre le dichiarazioni roboanti contro la Turchia (fatte da Obama in occasione del controgolpe con cui Erdogan ha rafforzato il proprio potere in Turchia nel 2016), o quelle recenti contro l’amico fraterno di Renzi in Arabia Saudita, non hanno conseguenza alcuna, se non quella di poter affermare che gli Usa sarebbero ovunque per i diritti umani, gli atti ostili verso la Cina (e la Russia) hanno conseguenze geopolitiche rilevanti. Insomma la politica estera degli Stati uniti si potrebbe definire con un ossimoro: imperialismo democratico.

Il movimento operaio non farà mai mancare il proprio sostegno ai lavoratori e ai popoli in lotta in tutto il mondo. Ma non si dovrebbe mai far arruolare da chi invece intende utilizzare ipocritamente l’anelito di libertà e giustizia come strumenti per affermare il proprio dominio sul mondo!

Il passato ha insegnato che una delle condizioni per preservare la pace è che ogni Paese si astenga dall’intervenire negli affari interni di un altro. Si chiama coesistenza pacifica. 

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