A 20 anni da Genova: l’insostenibilità sociale ed ecologica dell’Ue centrata sul commercio globale - di Monica Di Sisto

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Sessantanove milioni sono le lavoratrici e i lavoratori impiegati, fuori dai confini europei, dalle catene del valore globale made in Ue. Il loro salario medio? Settemila euro circa l’anno. In Europa ci lavorano 25 milioni di persone, con un salario medio di 25.600 euro. Questa ricetta per una catastrofe perfetta è certificata dal Rapporto Eurostat 2021 sul raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 che, per la prima volta, prova a mappare l’impatto delle produzioni dei paesi dell’Unione in giro per il mondo. L’Ue, quindi, è una esportatrice netta di occupazione, dalla qualità tutta da definire, considerato che gli accordi commerciali multilaterali e bilaterali che facilitano il commercio di beni e servizi non lo condizionano a specifiche norme contrattuali, sindacali, sociali e salariali, affidando alla volontà delle parti e delle loro imprese l’applicazione delle convenzioni internazionali a riguardo.

Lo stesso rapporto certifica che, a fronte di questa progressiva estroversione, il tasso di disoccupazione annuo Ue, nonostante il primo recupero post-Covid, è aumentato dal 6,7% del 2019 al 7,1% del 2020, e che la situazione dell’occupazione giovanile sia la più critica: il numero di occupati di età compresa tra 15 e 24 anni è diminuito dell’8,8% nel secondo trimestre del 2020, mentre il numero di disoccupati della stessa età è aumentato dell’11,5% nel terzo trimestre del 2020. I giovani che non studiano e non lavorano tra 15 e 29 anni sono aumentati in Europa del 13,4% nel secondo trimestre del 2020 rispetto al trimestre dell’anno precedente, e a fine 2020 erano il 13,7% dei loro coetanei, 1,1% in più rispetto all’anno precedente.

L’impatto ambientale dell’estroversione europea è altrettanto impressionante: circa 1,6 tonnellate di Co2 pro capite l’anno sono state emesse all’estero per la produzione di beni e servizi per l’Ue, e le emissioni dell’Ue contenute nei beni e servizi importati sono superiori alle emissioni connesse alle sue esportazioni. Abbiamo prodotto fuori dai confini 4,84 chili di ossido di azoto pro capite l’anno a fronte degli 1,95 generati in Ue, e 4,7 chili pro capite annui di diossido di zolfo, a fronte degli 1,5 chili in Ue connessi all’export. Tirando le fila, si stima che le importazioni dell’Ue abbiano generato nei Paesi al di fuori dell’Ue circa il 15% dell’impronta di carbonio dell’Ue, che è pari a 6,7 tonnellate pro capite.

A fronte di questi dati di fatto, l’Italia, presidente di turno del G20, si presenta alla ministeriale sul Commercio, a Sorrento l’11 e 12 ottobre, come Paese di manifattura e trasformazione, e propone come strumento centrale per la propria ripresa post-pandemica l’aumento dell’import e dell’export. Anzi: uno dei tre documenti strategici che ha sottoposto al commento dei Paesi partner suggerisce delle strategie per includere sempre più piccole e medie imprese nelle catene globali del valore. Quello che però il nostro Paese dimentica è che non ha un sistema per valutare gli impatti combinati – occupazionali, sociali e ambientali – di questa strategia: se a un investimento e/o aumento di Pil per le imprese e partecipate nazionali corrisponda, in estrema sintesi, un aumento o una perdita di occupazione, inquinamento, cambiamento climatico o mutamento sociale positivo e negativo. Il nostro Stato non ha un organismo di valutazione e intervento in grado di prevederlo e, se del caso, correggerlo. La cosiddetta “Coerenza delle Politiche” - che l’Unione europea prevede tra i pilastri delle sue regole d’ingaggio come il pareggio di bilancio - dovrebbe entrare in un Piano al momento in via di progettazione presso il ministero della Transizione ecologica, con il supporto del Forum dello sviluppo sostenibile, l’organismo di dialogo con imprese, società civile, e parti sociali istituito presso il ministero stesso. Ma la sua prima stesura, supportata da uno specifico progetto Ocse-governo in corso da oltre un anno, è stata rimandata a una imprecisata data dell’autunno prossimo.

In questi giorni ricorre il ventennale del G8 di Genova: pur se successivamente sopraffatta dalla cronaca sanguinosa di quei giorni, è una data importante perché segnò l’emersione, anche nel dibattito pubblico italiano, di un ragionamento critico sull’impatto della globalizzazione sulla tenuta sociale e ambientale del Paese e del pianeta. Come associazione e reti associative nazionali e internazionali, a partire dalla Società della Cura, ci siamo dati nuovamente appuntamento a Genova il 19 e il 20 luglio con lo slogan “Genova 2021: voi la malattia, noi la cura”. Vogliamo fare un bilancio in due assemblee, una nazionale e una internazionale, della traiettoria di questi vent’anni di sviluppo insostenibile, e per concordare un’agenda comune di mobilitazioni per l’autunno prossimo (https://genova2021.blogspot.com/2021/06/presentazione-della-rete-e-delle.html). L’invito è a lavorarci insieme, per evitare che le severe lezioni della pandemia vengano disperse, e per non tornare a una normalità peggiore di prima.

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