“Magistrati e polis. Questione democratica e questione morale”. Il XXIII Congresso di Magistratura democratica - di Rita Sanlorenzo

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Si è svolto a Firenze, dal 9 all’11 luglio scorsi, il XXIII Congresso di Magistratura democratica. Finalmente un appuntamento in presenza, dopo il lungo periodo di distanziamento forzoso dovuto al Covid. In questi mesi passati non sono comunque mancate, per il gruppo e in generale per la vita associativa della magistratura, le occasioni di discussione e di confronto per via telematica. Ma l’esperienza appena vissuta ha dimostrato ancora, caso mai ce ne fosse bisogno, come sia indispensabile, per la “buona politica”, il contatto personale, lo sguardo diretto, l’ascolto in presenza.

La scelta della dirigenza uscente (sia la segretaria Mariarosaria Guglielmi che il presidente Riccardo De Vito si presentavano dimissionari, per raggiungimento del limite statutario), quella cioè di fissare il congresso nella prima data utile dopo la fine del divieto di riunione in occasioni collettive, nonostante la stagione estiva e l’approssimarsi della sospensione feriale, si è rivelata quanto mai felice: la partecipazione è stata più che buona, nonostante la possibilità di seguire i lavori in streaming. Soprattutto è stato importante ritrovarsi per discutere.

Molte cose sono avvenute dall’ultimo congresso, che si era svolto nel febbraio del 2019. In generale il deflagrare della pandemia da Covid, con le ricadute pesanti sull’economia e soprattutto sulla situazione dei meno garantiti; l’aumento drammatico delle diseguaglianze e la sensibile involuzione dei diritti a partire da quelli del lavoro, che ormai conosce non infrequentemente condizioni schiavistiche. In sintesi, una terribile sfida per la stessa democrazia, messa in pericolo, per parlare del nostro specifico professionale, anche dalla grave crisi di sfiducia nei confronti della magistratura, causata dai recenti scandali che hanno colpito il sistema di autogoverno nella sua massima espressione, il Consiglio Superiore della Magistratura.

Di fronte a una perdita di immagine di tale devastante portata, è fondamentale richiamare alla coscienza di tutti i magistrati l’importanza di un forte rilancio della questione morale: solo un autogoverno responsabile ed estraneo alle logiche di potere del singolo può garantire una giurisdizione veramente autonoma ed indipendente, cardine dello Stato di diritto e dunque di ogni sistema di democrazia occidentale. Le drammatiche testimonianze che arrivano da Paesi non lontani e che fanno parte di quella Unione europea a cui ormai si guarda come ad un baluardo contro il dilagare dell’intolleranza e dell’autoritarismo, insegnano come uno dei primi passaggi per l’eliminazione dei controlli democratici passi attraverso la compressione dell’indipendenza della magistratura. È l’esempio che viene dalla Polonia, dall’Ungheria, e subito alle porte dell’Europa, dalla Turchia: un monito non distante da noi che ci riguarda tutti, magistrati e cittadini, e che rivela quale sia la portata della sfida in corso.

Si è parlato, ovviamente, del cantiere delle riforme della giustizia aperto dal governo, a cui si guarda con necessaria attenzione, senza alcuna preclusione aprioristica: ma rispetto al quale non può non sottolinearsi come il pacchetto dei referendum varato dai Radicali ed a cui hanno aderito i partiti di destra, Lega in testa, per un verso boicotta di per sé la necessaria iniziativa riformatrice; per l’altro, allunga una inquietante ipoteca sul modello di giurisdizione indipendente, mirando alla introduzione nel sistema di una figura di pubblico ministero come avvocato della polizia, sottratto alla comune cultura della giurisdizione e delle garanzie.

Se si vuole individuare un “fil rouge” capace di legare tutto il dibattito, questo è stato, doverosamente, il rapporto fra i giudici e la città; fra i magistrati tutti, la giurisdizione e la costruzione della democrazia: mai come ora, alla questione democratica si affianca, sotto questo particolare profilo, la questione morale e la sua declinazione nei rapporti fra istituzioni del governo autonomo e associazionismo.

Proprio per questo, nel VII centenario della morte di Dante, come didascalia del congresso è stato scelto un verso del Purgatorio (XVI, 97): “Le leggi son ma chi pon mano ad esse?”. È una frase, quella pronunciata da Marco Lombardo, che ci inchioda al principio di responsabilità, all’autocritica, all’analisi lucida. Ci indica inoltre la via di un cambiamento che deve nascere da un rinnovato atteggiamento etico dei magistrati – singoli e associati – e che non sarà il mutamento delle cornici istituzionali, da solo, a poter determinare.

Tre giorni di intenso dibattito, arricchito dai numerosi contributi di prestigiosi interventi esterni, a partire dalla lectio magistralis di Luigi Ferrajoli, ci hanno confermato che Magistratura democratica ancora c’è, e continuerà ad esserci.

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