Una riforma che non produrrà giustizia fiscale - di Alfonso Gianni

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Il governo ha inviato il Documento programmatico di bilancio alla Commissione europea che dovrà esprimere un parere da cui deriverà la legge di bilancio da presentare nei prossimi giorni in Parlamento. Si è parlato di “unanimità”, ma la Lega ha messo a verbale la sua riserva politica sulle pensioni. Cosa non da poco, anche se Draghi si è limitato a prendere atto. Il Pd ha rilasciato dichiarazioni molto positive sul documento ma, a quanto si sa, al posto di Quota 100, dovrebbe esserci prima una Quota 102 (64 anni di età e 38 anni di contributi), dal 1° gennaio al 31 dicembre 2022, e poi una Quota 104 per tutto il 2023. Un modo per evitare un passaggio drastico alle regole dettate dalla legge Fornero. Scalini al posto dello scalone. Soluzione che non piace affatto al sindacato, Cgil in testa.

Draghi ha deciso di calare la carta della riforma fiscale, attorno alla quale si gioca un vero e radicato scontro di interessi. In realtà i dieci articoli che compongono il disegno di legge delega sono solo “una scatola di principi”, come ha detto lo stesso Draghi. Il rischio concreto è che nella discussione parlamentare il testo subisca profonde modifiche se non stravolgimenti in peggio. Ipotesi tutt’altro che irrealistica visto il pessimo documento uscito dalle commissioni finanze di Camera e Senato, guidata dal renziano Marattin.

La revisione del catasto – punto di scontro con la destra - acquisterebbe efficacia solo a partire dal 1° gennaio 2026. Draghi ha precisato che sul tema ci sarebbero due impostazioni completamente diverse: “la prima è costruire una base di informazione adeguata”, come ad esempio stanare le famose “case fantasma” di cui è costellato il nostro martoriato territorio; mentre “la seconda è decidere se cambiare le tasse e questa decisione oggi non l’abbiamo presa. Ci vorranno cinque anni”. Quindi non solo non si parla di patrimoniale – e ciò era chiaro fin dall’inizio - ma è il governo stesso che si impegna a garantire, ben al di là della sua durata e di quella della legislatura, che per almeno cinque anni non avverrà alcuno spostamento del prelievo fiscale dal lavoro alla rendita, né sarà possibile superare la crisi finanziaria che strozza le autonomie locali.

La legge delega non nasce alla ricerca della giustizia fiscale, infatti il primo dei quattro principi citati, che dovrebbero riempire la scatola draghiana, è lo “stimolo alla crescita economica”. Si vuole portare il nostro sistema verso un modello compiutamente duale, quindi con la distinzione della tassazione tra redditi da capitale e redditi da lavoro. Per i redditi da capitale è prevista una tassazione proporzionale, tendenzialmente con un’aliquota uguale per tutti, ma con gradualità, nell’intento di rendere più efficiente il mercato dei capitali. Per i redditi da lavoro è prevista la riduzione delle aliquote effettive medie e marginali dell’Irpef, con l’obiettivo di incentivare l’offerta di lavoro, in particolare nelle classi di reddito dove si concentrano i giovani. Ove per aliquote effettive si intendono quelle formali ma corrette dalle detrazioni.

Qui si gioca tra poco il grosso della partita, poiché questa parte dovrebbe essere anticipata in legge di bilancio, vista anche la disponibilità finanziaria esistente, che dovrebbe toccare i 9 miliardi. Ma non basta respingere le proposte, in vario modo formulate dalle destre, e non solo, sulla flat tax e sui regimi forfettari. Proprio qui si delinea un bivio. Una volta respinta, purtroppo, una soluzione alla tedesca sul modello della “aliquota continua”, o si sceglie la strada di distribuire riduzioni a pioggia o bonus, come nel recente passato, facendo cassa elettorale, oppure quella di agire sulle aliquote effettive, evitando scaloni o clamorose diversità di trattamento per pochi euro di reddito, alleviando così per via fiscale l’insopportabile basso livello delle retribuzioni italiane che ormai tutti rilevano, a parte la Confindustria nostrana.

La lotta all’evasione e all’erosione rimane un principio vago, almeno per due motivi. Il primo riguarda la razionalizzazione dell’Iva, che può essere uno strumento anche contro l’erosione, ma tutto dipende da come sono articolate le aliquote e a quali beni si riferiscono, nel cui merito la legge delega non entra. Il secondo riguarda la decisione di espungere dalla delega norme di superamento di quei vincoli sulla privacy che depotenziano gli accertamenti fiscali. Draghi ha promesso che le inserirà in un disegno di legge ad hoc. Un’altra carta coperta quindi. 

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