Il lavoro di Paolo Pietrangeli - di Roberto Musacchio

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Lo sciopero, l’operaio licenziato, la sua famiglia che vuole il figlio dottore, iscritto al partito... Le canzoni di Paolo Pietrangeli raccontano questo mondo, insieme a quello degli studenti, cui lui apparteneva e che cercavano un rapporto con i lavoratori. Lo fa da dentro storie di vita, di interni familiari che discutono se il figlio debba sapere che il padre è stato licenziato perché ha scioperato.

Sono ancora i personaggi della grande lezione del neorealismo italiano, che ora sono protagonisti di una nuova epopea dopo quella del dopoguerra, e cioè la stagione che ha la sua acme con il ’68/’69 ma che comincia prima e continuerà a lungo. Fino a quando la restaurazione neoliberale toglie dignità e soggettività al lavoro, lo riduce a precarietà. Si parla tanto oggi, e giustamente per la sua bravura, di Zerocalcare, e mettere a confronto i mondi dei due artisti mostra visioni entrambe popolari e attraversate dal genio, che è comunque ribellione ma che riflettono quanto è successo.

Per Pietrangeli il lavoro, il rapporto tra la sua dimensione individuale e quella collettiva, quella intellettuale e quella materiale, è stato una costante della vita. Si può dire che lavorava sempre, pensava a cose da fare. Le canzoni “di lotta” erano “sue” ma diventavano colonna sonora del movimento, come è stato scritto, e io direi di più: parte del movimento stesso. E stavano dentro un lavoro collettivo, il Nuovo canzoniere popolare, i Dischi del Sole. Il regista è il regista, ma il suo lavoro ha bisogno del collettivo, vuoi che giri i “Giorni cantati” con Benigni, Guccini, Melato, vuoi che lavori con Costanzo, vuoi che partecipi ad opere collettive come quelle su Genova.

Pietrangeli anche a Rifondazione Comunista, da dove è cominciata la nostra amicizia che si è protratta fino all’ultimo momento, faceva cose. Stava al Comitato politico nazionale ma soprattutto faceva uscire dischi con Liberazione, organizzava una tv, faceva cantare a un congresso un inno.

Lui sapeva usare la chitarra e tutte le tecnologie del suono e del visivo. Ha fatto da ultimo un disco in vinile. Poi Contessa è diventata Giorgio Tremagi, un libraio che è anche trattore e si imbatte in delitti in una parte particolarissima di Roma che solo lui poteva eleggere a set/scenario: piazza Epiro. Qui c’è ancora il popolare, la sua “famiglia malausseniana” in una sorta di Belleville, per citare Pennac, descritti con la sua penna che gioca, sfuma, ironizza, celia senza sfuggire le tristezze. L’incertezza del vivere, per cui non amava le certezze dei gialli ma Simenon sì gli piaceva, e il suo Maigret di cui Giorgio Tremagi è rimando e anagramma. In una storia che si è fatta più personale come le tante bellissime canzoni scritte dopo quelle famosissime c’è sempre l’antifascismo, grande costante dai tempi del documentario sul neofascismo italiano, Il bianco e il nero.

Paolo ci teneva a fare bene il suo lavoro. Ti tempestava di domande ma poi agiva con professionalità e passione. Era lavoro e libera attività. Ciò che è e che dà senso alle nostre vite, individuali e collettive, ciò che sarà e ne darà di più. Anche per questo era comunista.

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