Carrefour: ennesima crisi industriale? - di Claudio Ambrosio

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Le due sfide della Filcams Cgil di fronte alla diffusa sfiducia sul piano di rilancio aziendale.

Puntuale è arrivata la procedura di mobilità, contestuale all’ennesimo piano di rilancio di un’azienda che, negli anni, ha visto progressivamente erodere i fatturati come la propria presenza nella penisola, almeno per quanto riguarda la gestione diretta dei punti vendita, con una conseguente e impressionante riduzione del numero dei lavoratori in organico, passati da circa 25mila a poco più di 15mila in un decennio.

Sono lontani ormai i tempi in cui Carrefour mirava ad essere fra i primi operatori in Italia, ora che si situa stabilmente a centro classifica; 769 lavoratori in esubero tra sede e negozi, più un altro migliaio di lavoratori interessati dalla scelta prioritaria per l’azienda di investire solo nella crescita dei franchising, con la formula dell’affitto di ramo d’azienda, una sorta di “delocalizzazione in situ” (non posso spostare l’unità produttiva in un Paese dove il costo del lavoro è minore, allora mi libero della gestione diretta dei dipendenti, scaricando su di loro il rischio di impresa tramite un imprenditore terzo).

In realtà il numero degli esuberi è superiore a quello dichiarato, perché Carrefour non conteggia al suo interno tutti quei lavoratori che, negli ultimi due anni, sono già stati interessati da un programma di incentivi all’esodo, con una sorta di mobilità non ufficiale.

Se da un lato sembrerebbero confermate le difficoltà dei grandi gruppi stranieri sul mercato italiano (come dimenticarsi i casi di Rewe/Billa e Auchan?), dall’altro la crisi di Carrefour, nella sua specificità, è un concentrato di contraddizioni e nodi irrisolti che riguardano un po’ tutta la Grande Distribuzione Organizzata (Gdo), a partire dalle prime disdette della contrattazione integrativa nel settore, risalenti a quindici anni or sono.

Il tema specifico è quello delle liberalizzazioni ma anche del mercato del lavoro; Carrefour ha utilizzato tutte le leve che un mercato del lavoro precarizzato come quello italiano può offrire, dalle terziarizzazioni delle attività di caricamento banchi all’utilizzo dei contratti a termine, dalla somministrazione agli stage per finire con lo staff leasing, senza però trarne particolare beneficio, visto che l’incidenza del costo del lavoro, tra punti vendita diretti e sede, è superiore di ben quattro punti rispetto alla media dei principali competitori.

Del resto è altresì vero che, se non si incrementa il fatturato e non si inseriscono lavoratori più giovani negli organici, è arduo invertire la tendenza. Incrementare il fatturato è una missione impossibile se si offre un servizio alla clientela peggiore sia in termini di qualità - perché riducendo continuamente gli organici come fa Carrefour è impossibile mantenere uno standard minimo - che di convenienza dei prezzi, in un mercato maturo come quello della vendita al dettaglio di generi alimentari, con un eccesso di offerta (le continue aperture di nuovi supermercati e negozi di vicinato e il recente sviluppo dell’e-commerce). E una domanda in calo per motivi facilmente comprensibili, legati alla crisi dei salari - cui anche la Gdo dà il suo contributo non rinnovando per tempo i Ccnl - alla precarietà lavorativa, al decremento demografico e all’invecchiamento della popolazione.

Anche il “decreto Monti” sulla liberalizzazione degli orari nel commercio non ha giovato, nonostante l’utilizzo compulsivo che ne ha fatto Carrefour con i suoi supermercati aperti h24, 7 giorni su 7. Qui si potrebbe scoperchiare il vaso di pandora dei mantra liberisti, ripetuti fino allo sfinimento, sui benefici derivanti all’economia e all’occupazione dalle nuove opportunità offerte con le liberalizzazioni.

Il modello di sviluppo della rete attraverso il franchising presenta non poche criticità. I negozi interessati dall’affitto di ramo d’azienda sono soprattutto medio-piccoli, con fatturati fino a 6-7 milioni di euro l’anno e con organici da poche unità fino ad un massimo di 15-20 dipendenti, soprattutto Express ma anche alcuni Market (almeno nelle intenzioni iniziali, ma il processo potrebbe estendersi anche a punti vendita con fatturati e organici superiori). A fronte di manifestazioni di interesse che vedono inizialmente un 90% circa di esterni all’azienda candidarsi alla gestione dei negozi, dopo la selezione il rapporto si capovolge, e le persone che Carrefour individua sono al 90% ex dipendenti, in virtù anche delle condizioni particolarmente vantaggiose che l’azienda offre ai dipendenti che vogliano intraprendere la carriera imprenditoriale.

Resta il fondato sospetto che le disponibilità economiche e finanziarie di questi ex dipendenti non siano poi tali da mettere al riparo i negozi ceduti da rovesci economici, così come ci sarebbe da dire qualcosa sull’accuratezza del processo di selezione, che non evita il verificarsi di episodi incresciosi come quello occorso nei mesi scorsi in un market di Torino, con minacce rivolte dall’affittuario ai dipendenti e al funzionario Filcams che stava svolgendo l’assemblea nel punto vendita.

Qual è il punto di vista di noi lavoratori? C’è parecchia sfiducia nel piano di rilancio aziendale, non ci crede praticamente nessuno. La sensazione è quella di essere stati usati in tutti questi anni e, malgrado i sacrifici fatti, di trovarsi all’asta al miglior offerente: non c’è alcuna certezza che Carrefour rimanga in Italia dopo il 2022, nonostante le continue smentite dei vertici aziendali.

Anche l’esperienza quotidiana in punto vendita non induce a pensieri ottimistici, tra ambienti di lavoro spesso fatiscenti, materiale obsoleto, progetti da implementare a tutti i costi perché già approvati a budget, e poi abbandonati senza spiegazione alcuna, investimenti promessi e mai realizzati, risparmi su tutto, organizzazioni del lavoro che faticano a reggere se i lavoratori che lasciano non vengono sostituiti, carichi di lavoro proporzionalmente crescenti e altro ancora.

Insomma, chi può fugge accettando gli incentivi all’esodo, spesso molto generosi se paragonati ad altre crisi industriali, ma questo determina un impoverimento per l’azienda, perché se ne vanno i lavoratori più anziani, con il loro bagaglio di conoscenze, o quelli che hanno una professionalità spendibile sul mercato del lavoro e che sono anche più difficili da rimpiazzare (macellai e gastronomi). Altri ancora intraprendono una carriera professionale completamente avulsa dalle competenze specifiche maturate nella loro precedente vita lavorativa. I problemi veri sono per chi rimane, perché non ha altre alternative e perché vede da anni un peggioramento costante delle proprie condizioni di vita e di lavoro.

In tutto questo la Filcams Cgil negli anni è riuscita a mantenere una contrattazione di secondo livello nazionale, cosa che non era così scontata a fronte di ben due disdette, a ottenere accordi provinciali sul lavoro domenicale, soprattutto nei territori dove la forza rappresentata dagli iscritti è maggiore, a gestire le passate procedure di mobilità raggiungendo accordi per esodi su base volontaria. Accordi con elementi anche innovativi come quello raggiunto sui market a Milano a dicembre dello scorso anno (che vede al suo interno un capitolo specifico su banca ore per l’inserimento scolastico, permessi dsa e congedi per le donne vittime di violenza).

 

Oggi dobbiamo saper raccogliere una duplice sfida: da un lato cercare di rendere il meno traumatica possibile la procedura di mobilità in corso, destinando una particolare attenzione a chi resta sul luogo di lavoro, costruendo anche un protocollo a tutela dei lavoratori oggetto dei processi di franchising; dall’altro difendere e incrementare la nostra presenza in azienda.

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