La crisi di un presidente autocrate e di un governo classista - di Giacinto Botti

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La crisi di governo non può che preoccuparci. Non siamo indifferenti e non siamo di certo per il tanto peggio tanto meglio. Abbiamo consapevolezza della necessità di avere un Parlamento nel pieno delle sue funzioni, un governo credibile e rappresentativo, per poter esercitare in piena autonomia di pensiero e di azione gli interessi della nostra rappresentanza.

Per la Cgil non ci sono governi “amici” e comunque il governo Draghi, dell’unità nazionale e dei “migliori”, non l’abbiamo mai considerato tale. Né abbiamo mai pensato che l’autorevole tecnocrate liberista Mario Draghi, ex direttore generale del Tesoro, ex governatore della Banca d’Italia, ex presidente della Bce, sorretto e voluto dai poteri finanziari ed economici, designato e imposto in un inconsueto percorso istituzionale, potesse rappresentare il cambiamento di cui il paese avrebbe bisogno e che da tempo richiediamo con lotte e mobilitazioni.

Noi giudichiamo i governi dal merito e dalle scelte che assumono, e non dalla loro composizione politica e partitica.

Nella democrazia parlamentare la politica e i partiti, espressione del voto popolare, hanno la responsabilità di formare i governi, il Parlamento il compito di approvarli e di sostenerli, il sindacato il dovere di esercitare la sua rappresentanza, di difendere e conquistare, con il confronto preventivo, la contrattazione e il conflitto, gli interessi delle lavoratrici, dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani e delle donne. Di tutte e tutti coloro che vivono la condizione sociale più difficile e che da decenni stanno pagando per politiche sbagliate, ingiuste, discriminanti e classiste. Di coloro che subiscono le conseguenze di una guerra che doveva e poteva essere evitata, di una crisi strutturale del sistema di accumulazione e di sfruttamento, e delle emergenze sanitarie, sociali ed economiche che stanno soffocando il paese reale.

Sulla crisi di governo non ci uniamo al coro conformista e ipocrita: una crisi che è innanzitutto di ordine sociale, deflagrata attorno ai gravi problemi sociali, e su come affrontarli e risolverli.

La responsabilità primaria è dell’autocrate presidente del consiglio, dei partiti di governo e dell’esecutivo. Di tutti i parlamentari che hanno accettato di essere comparse senza decidere e interloquire con le scelte imposte dal governo, attraverso decine di voti di fiducia.

La ricerca del capro espiatorio nei 5 Stelle è fuorviante rispetto alla realtà politica e sociale di un paese attraversato da tempo da una crisi della democrazia parlamentare e di credibilità dei partiti politici, dove la destra “di governo”, in alleanza con quella “di opposizione”, riesce comunque a dettare l’agenda politica.

Il presidente Draghi, il “nonno” al servizio delle istituzioni, pronto a scappare dalle sue responsabilità di governo per accedere alla carica di presidente della Repubblica, il tecnocrate con la malcelata avversione alla democrazia parlamentare, si era dimesso per “lesa maestà” dopo aver ottenuto la fiducia.

In una democrazia parlamentate la fiducia verso un governo non si impone con il ricatto ma la si conquista con programmi e indirizzi chiari, indicando gli interessi e i beni pubblici che si vogliono difendere e il paese che si vuole costruire, avendo come faro la Costituzione repubblicana.

Questo governo non ha dato risposte all’altezza della grave situazione, non è intervenuto con scelte strutturali e riforme diverse dal passato. Non a caso, nell’incontro del 12 luglio con Cgil, Cisl, Uil, non ha dato le risposte che si attendevano, come ha denunciato la Cgil. Mentre per Confindustria il suo incontro con il governo è stato soddisfacente e positivo.

In questi 17 mesi del governo Draghi ci sono state mobilitazioni e scioperi, le denunce e le critiche della Cgil sono state forti e motivate, la scuola ha dichiarato lo sciopero generale, centinaia sono i tavoli aperti delle crisi aziendali, Cgil e Uil il 16 dicembre hanno proclamato e realizzato lo sciopero generale. Contro la Cgil e lo sciopero generale si sono sentite accuse e aggressioni che non vanno dimenticate.

Occorre sfuggire dalla mistificazione di questi giorni, tanto pericolosa e falsa per la nostra democrazia. Non siamo di fronte all’uomo della provvidenza, al salvatore della patria, senza il quale il paese precipiterà negli abissi più profondi.

Non è tanto la crisi di governo ad aver congelato riforme necessarie al paese su lavoro, fisco e pensioni, ma la colpevole e deficitaria azione di governo. Il governo non è stato all’altezza del suo compito, sono mancate scelte radicali, non si sono voluti intaccare privilegi, aggredire l’evasione, colpire le grandi ricchezze, mettere al centro il lavoro e il suo valore. Non si è voluto dare una risposta alle giovani generazioni che vivono una precarietà di vita e di lavoro, non si è affrontata quella che si può definire la “privatizzazione” del disagio sociale. Non si è voluto intervenire sulle cause delle diseguaglianze e delle povertà che si stanno ampliando. Si è data continuità a politiche neoliberiste, egoistiche, avventuriste, senza intaccare gli interessi delle classi dominanti e il potere finanziario. Il paese reale è rimasto ai margini dell’azione del governo.

Non è più tempo di bonus, di politiche posticce, di misure tampone emergenziali e di interventi caritatevoli. La Cgil, noi tutti, vogliamo uscire da sinistra da questa crisi sistemica. Non è più tempo di ambiguità e di equidistanza tra capitale e lavoro.

Questo governo non ha voluto cancellare il jobs act, reintrodurre l’articolo 18, superare la pessima e devastante riforma Fornero. Ha sbloccato i licenziamenti, non ha investito nel lavoro, non ha ipotizzato una minima politica industriale, non ha fermato le delocalizzazioni, ha proceduto con le privatizzazioni. Non ha fatto la riforma del catasto, con la mini “riforma” del fisco ha privilegiato i ricchi, disconoscendo i meno abbienti. Non ha combattuto le diseguaglianze ma le ha ampliate. I diritti civili, la cittadinanza vengono rimandati, come sempre. La legge fine vita non è neppure considerata. La petizione firmata da magliaia di cittadini per la messa al bando delle forze neonaziste e fasciste è rimasta in fondo al cassetto. La gestione e la prevenzione della nuova ondata pandemica, data in appalto a un generale, stanno producendo ritardi e colpevoli sottovalutazioni. Nessuna politica di prevenzione, di reale difesa del suolo, dell’acqua, dell’aria di un paese avvelenato e cementificato. Sui morti assassinati al lavoro, in continuo aumento, sulle malattie professionali, sugli infortuni, c'è stato il silenzio assordante di un presidente che forse pensa, come il capo di Confindustria, che questo sia il prezzo da pagare al mercato e al progresso.

Questo è il governo della guerra, il più bellicista e prono alle scelte e agli interessi Usa, che invia armi contro il dettato costituzionale, aumenta le spese militari mentre prevede tagli alla sanità pubblica e non investe adeguatamente nella scuola, nella ricerca, nella prevenzione. Un governo che ha fatto accordi militari ed economici con dittatori e razzisti, che ha confermato l’accordo economico militare con la Libia per fare il lavoro sporco contro gli immigrati e i profughi, per rinchiuderli nei lager dove trovano tortura, stupro e morte. Un governo che non ha affrontato la grande sfida ambientale, operato per una concreta transizione ecologica, ma che riapre le centrali a carbone e ripensa al nucleare, mentre con il Pnrr si consuma ancora il suolo finanziando le grandi opere inutili e riscoprendo ancora il ponte sullo stretto di Messina, per la felicità di mafiosi e costruttori senza scrupoli.

In questi mesi si è accentuata la distanza tra cittadini e istituzioni, tra i partiti di governo e il sentire del popolo. E quel popolo non ascoltato, in sofferenza e senza voce, quel popolo che non vuole la guerra e che è contro il riarmo e l’invio delle armi, sarà ora chiamato al voto politico.

La disaffezione al voto è una protesta di un solo giorno, e la ridotta partecipazione alla vita politica non scalfirà il potere e la politica politicante. Questo paese è in una crisi profonda, sociale e democratica. Ognuno assuma le proprie responsabilità.

Il presidente Draghi ha plasmato il governo imponendo la sua visione di società e la sua idea di crescita con ideologico riferimento al mercato e alla economia. La bomba sociale è innescata da tempo e potrebbe esplodere già a settembre, quando tutte le crisi in atto convergeranno su un paese fragile, impoverito, diseguale e attraversato da corruzioni, complicità politiche mafiose, interessi lobbistici, poteri trasversali, corruzioni, e una evasione fiscale che rappresenta la palla al piede per le future generazioni.

La crisi del governo Draghi è politica e sociale, si è consumata attorno a scelte dirimenti su come affrontare la grave crisi sanitaria, economica, sociale e democratica che ci attanaglia da tempo. I nodi sono venuti al pettine e le contraddizioni sono implose.

Occorre reintrodurre nella società il valore e la forza progressista del conflitto, dello scontro politico tra gli interessi e tra classi, lo scontro tra capitale e lavoro che rimane il nodo cruciale per ogni lotta per il cambiamento, per i diritti sociali e civili, per l’eguaglianza di genere e delle possibilità.

In questa fase complessa e delicata la Cgil deve continuare la sua mobilitazione perché non siano i soliti a pagare le conseguenze della guerra e della pandemia, riproponendo ai propri iscritti, alle pensionate e ai pensionati, alle lavoratrici e ai lavoratori, la bussola della propria proposta programmatica, sintetizzata anche nel documento congressuale “Il Lavoro crea il Futuro”. Il programma della Cgil è – in buona sostanza – un programma di piena e coerente attuazione dei valori costituzionali della Repubblica fondata sulla Resistenza. Su questo abbiamo misurato il governo Draghi; su questo misureremo qualsiasi governo uscirà dalle urne. La Cgil rimane in campo con la sua autonomia di pensiero e di proposta.

Ascanio Celestini: “L’unica vittoria è evitare le guerre” - di Frida Nacinovich

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Scrittore, regista, attore, Ascanio Celestini ha un modo tutto suo, inconfondibile, di raccontare le cose. La sua visione del mondo è quella di un uomo di cultura, sia ‘alta’ che ‘bassa’, che rifiuta alla radice l’idea che le guerre siano un modo di risolvere le controversie internazionali. Lo ascoltiamo volentieri, come quando è sul palco di un teatro o negli spazi di una piazza.

 

- La guerra in Ucraina è stata derubricata a terza o quarta notizia, dopo la crisi del governo Draghi, la siccità, l’ondata di calore, però continuano ad esserci lutti e devastazioni che potevano essere evitate…

“Chi si occupa di politica molto spesso si occupa del partito, della Confindustria, della propria industria, ecc., ecc. Teoricamente, anche semanticamente, chi si occupa di politica dovrebbe invece occuparsi della polis, del luogo dove vivono le persone. Se fossimo saggi la guerra semplicemente non la faremmo, tantomeno la alimenteremmo. Ma prova a immaginare due politici, uno che dichiara di voler mandare armi in Ucraina e l’altro che invece le armi non le vuol mandare. Questa scelta implica l’impegno di poche ore, forse di qualche giorno. Mentre invece per cercare di arginare la deriva alla quale abbiamo condannato l’ambiente dove viviamo, nel senso di ecosistema, ci vogliono decenni. E tra dieci anni i politici che ci sono adesso faranno un altro mestiere, come fa un altro mestiere Walter Veltroni. Politici che magari vent’anni fa avevano un peso”.

 

- L’informazione sembra avere l’elemento saldato in testa.

“Prima cosa: i giornali non li legge quasi più nessuno. Piuttosto sono diventati una sponda per l’informazione. Mi spiego, se il Corriere della Sera pubblica un articolo importante, allora il pezzo rimbalza sui social, e il suo numero di lettori si moltiplica. Ma non perché siano aumentati quelli che leggono il Corriere, Repubblica, o altri quotidiani. Forse i lettori dell’Avvenire e del Fatto quotidiano, faccio nomi di giornali molto distanti fra loro, fanno eccezione. Anche la televisione funziona in questa maniera, cioè fa da sponda per moltiplicare le notizie. Ma ora arriviamo alla tua domanda, tu mi chiedi perché le ragioni della pace non trovano spazio adeguato nell’informazione. Perché sono molto più complesse. Può sembrare un paradosso, ma è molto più complicato cercare di spiegare perché siamo contro la guerra, piuttosto che esporre le motivazioni che invece questa guerra ti spingono ad alimentarla. È molto più vicino al codice barbaricino dire “se mi pesti un piede, ti do un cazzotto”. Occhio per occhio funziona meglio come messaggio. Anche se magari le stesse persone che dicono se entri dentro casa mia tiro fuori il fucile e ti sparo, un fucile in casa non ce l’hanno, almeno da noi in Italia. Negli Stati Uniti magari sì, lo hanno pure. La violenza è qualcosa di molto più sedimentato, profondo, è pervasiva. Bisogna prendere atto di una narrazione pulviscolare, permeante, che continuamente ci suggerisce di avere comportamenti più ostili nei confronti dell’altro perché alla fine ci faranno guadagnare qualcosa”.

 

- In una delle sue poesie contro la guerra, Bertolt Brecht scrisse che “l’unica terra che conquistano i soldati è di un metro e ottanta di lunghezza e due metri di profondità”.

«Io penso a quei milioni di ucraini che scappano, che sono già scappati anni fa. Scappano e basta. Non si sentono russofoni, ucrainofoni, non si preoccupano dei confini, scappano per salvarsi la vita. Milioni di italiani sono scappati all’estero per cercare un futuro migliore, se non per se stessi almeno per i figli. La maggior parte delle persone si comporta così, non si fa problemi ideologici. Ideologici, nel senso di pertinenti a una visione del mondo. Temo che dalla guerra non ne usciremo. La guerra è completamente nelle mani delle cosiddette forze in campo. Sta succedendo quello che è successo durante la Seconda guerra mondiale, quando i trattati di pace non valevano più niente. La diplomazia contava ben poco, anche la cosiddetta 'second track diplomacy' era inefficace, contava solamente conquistare territori. L’equilibrio raggiunto non era quello di Yalta, piuttosto dove erano arrivati con l’esercito, da una parte e dall’altra. Teoricamente stavano dalla stessa parte l’esercito sovietico e quello americano, però già agivano in virtù delle proiezioni per il futuro, dove sono riusciti ad arrivare hanno messo la bandierina e la terra è diventata loro. Ognuno adesso sta cercando di conquistare più terra possibile. Di fatto la guerra è tra Federazione Russa e Stati Uniti d’America. Solo che gli Stati Uniti fanno un passo indietro e mandano avanti i fanti ucraini. Forse arriveremo ad un equilibrio per cui tutti e due, da una parte e dall’altra si sentiranno in diritto di dire ‘abbiamo tenuto botta’, ‘abbiamo conquistato il giusto’”.

 

- Ascanio, l’Europa non avrebbe potuto giocare un ruolo in favore della pace, invece di contribuire attivamente all’invio di armamenti?

“Kennedy si mise d’accordo con Krusciov trattando sui missili che stavano in Turchia. ‘Tu ti riprendi i missili e io li tolgo dalla Turchia’. Premesso che gli Stati Uniti non correvano alcun rischio neppure allora, con il senno del poi fu un atto di coraggio da parte di entrambi. Peccato che nel giro di poco tempo Kennedy sia stato ammazzato, e Krusciov prepensionato. L’Europa è un protettorato degli Stati Uniti, non una colonia vera e propria. E il fatto di essere un protettorato non è una condizione del tutto sfavorevole. Fin quando gli Stati Uniti considereranno l’Europa strategicamente un giardino che deve essere preservato, saremo più sereni”.

 

- Pieni di basi americane, felici e contenti?

“Forse questa era l’occasione per avere una politica autonoma. Il problema è che l’Europa non è forte sulla politica internazionale perché gli Stati non sono forti. La Spagna sono due paesi. La Germania ha il problema storico dell’impossibilità di sovrapporre stato e nazione. La Svizzera non si sa bene che cosa è, parlano tre lingue diverse. L’Italia è uno degli Stati che riesce a sovrapporre stato e nazione: si parla italiano, tutti quelli che parlano italiano stanno all’interno dei confini del paese. Poi c’è questo esempio straordinario di partito che è la Lega, fino all’altro ieri era secessionista, nel giro di venti minuti è diventata un partito nazionalista. E gli elettori hanno continuato a votarlo, anzi lo hanno votato ancora di più”.

 

- Premesso che l’Ucraina è stata aggredita dalla Russia … oggi per poter parlare in tv bisogna sempre iniziare il discorso così.

“Prima cosa da ricordare è che i buoni e i cattivi, ammesso e non concesso che ci siano delle persone completamente buone e delle persone completamente cattive, non sono distribuiti tutti da una parte o tutti dall’altra. Pensavamo di avere imparato dal novecento, in realtà anche dall’ottocento, che le vittime sono le classi subalterne. E che quindi, se proprio c’è una guerra da fare, è nei confronti delle classi dominanti. Sono cattivi tanto Putin quanto Zelensky, i buoni sono i poveracci che si prendono le cannonate da una parte e dall’altra. Se poi parliamo di stupri, violenze, non facciamo altro che raccontare quello che è la guerra. I buoni e i cattivi probabilmente esistono, ma sono da entrambe le parti. I luoghi dove si sono svolte le più violente battaglie della Prima guerra mondiale sono ancora oggi distrutti. E stiamo parlando di più di cento anni fa. Noi stiamo alimentando una cosa insensata. Spesso mi chiedono: ‘E quindi? Gli ucraini dovrebbero arrendersi?’. Rispondo che dovrebbero consegnare le armi, anziché chiederle. Scegliere a chi consegnare le armi. Non è detto che sia sensato consegnarle ai russi. Potrebbero darle, che so, ai moldavi, ai rumeni, al Vaticano. Decidere nelle mani di chi mettere la propria scelta di pace”.

 

- Papa Francesco è infaticabile nel denunciare la follia della guerra, di ogni guerra. Eppure continuano a non ascoltarlo.

“Papa Francesco ha detto le cose che diceva Aldo Capitini. In ‘Fratelli tutti’ se non sbaglio ha scritto che non è possibile parlare di guerra giusta. Negli ultimi secoli abbiamo sbagliato ad appoggiare delle guerre pensando che fossero giuste. Parole che dice anche Alex Zanotelli. I conflitti che non ci sono stati, le guerre che non sono scoppiate, sono state le grandi vittorie. La vittoria della non violenza non è tanto quella di fermare la guerra, quanto riuscire a non farla scoppiare. In India, e in Sudafrica, non c’è stata una rivoluzione violenta, c’è stata una rivoluzione non violenta. Questo non significa che la non violenza produca un mondo perfetto, il mondo è imperfetto lo stesso. Ma in India sarebbe potuta essere una carneficina mostruosa, un genocidio, invece non c’è stato. Penso che il 24 febbraio scorso molti di noi siano rimasti sbalestrati, impietriti. Non sapevamo che dire. Possibile che dopo tutta questa sporcizia che abbiamo visto, conosciuto nel corso degli ultimi dieci anni, ancora crediamo che sia possibile la guerra giusta? Ieri con mio figlio stavamo vedendo un documentario americano nel quale lo statunitense dice: “Ho servito il mio paese in Vietnam”. Lì per lì fa un po’ ridere: perché in Vietnam? Non lo potevi servire in Oklahoma il tuo paese? Come se io italiano dicessi ‘ho servito il mio paese in Norvegia’. Non potevi andare in Molise per servire il tuo paese?”.

 

- Riusciremo ad andare in pace?

“Francesco Bergoglio ha detto: “Oggi, con gli ordigni nucleari, termonucleari, non possiamo parlare di guerra”. Non ha alcun senso prendere le armi. Lo ha detto Capitini negli anni cinquanta e sessanta, lo ripete Papa Francesco. È una cosa talmente ovvia che non dovremmo nemmeno discuterne. E invece stiamo lì a parlar di una 'no fly zone' che potrebbe portare a un conflitto diretto fra Stati Uniti e Federazione Russa. Allora non la facciamo, però mandiamo missili. Nel frattempo Elon Musk spara i suoi satelliti nello spazio per dare la possibilità agli ucraini di comunicare con quelli dell’Azov anche da sottoterra, un genio …”.

Disarmo: i Paesi membri del Trattato Tpnw approvano un piano di azione contro le minacce nucleari - di Sinistra Sindacale

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Il 24 giugno scorso, dopo tre giorni di approfondito dibattito e confronto alle Nazioni Unite a Vienna, i 65 Stati che fanno parte del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (Tpnw) hanno concluso la prima riunione del Trattato, condannando in modo inequivocabile “qualsiasi minaccia nucleare, sia essa esplicita o implicita e a prescindere dalle circostanze”. Una presa di posizione, anche in risposta alle intimidazioni nucleari della Russia, che costituisce la più forte ed esplicita condanna multilaterale di sempre alla minaccia di usare armi nucleari.

La “Dichiarazione di Vienna” – approvata per acclamazione e con pieno consenso – indica la strada di una nuova alleanza globale che utilizza il quadro di riferimento del Trattato Tpnw per ridurre i rischi di guerra nucleare, definendo passi concreti e comuni per porre fine all’era delle armi nucleari. Fanno parte di questa nuova alleanza i 65 Stati Parti del Trattato, gli altri Stati sostenitori, i sopravvissuti alle esplosioni nucleari, le organizzazioni internazionali, parlamentari, istituzioni finanziarie, giovani e società civile.

La prima riunione degli appartenenti al Tpnw dopo la sua entrata in vigore doveva affrontare vari passaggi per rendere il Trattato realmente operativo. Ma proprio perché non si tratta di un documento vuoto e retorico, il confronto tra gli 83 Stati presenti alla conferenza (diversi solo osservatori, non Parti del Trattato) ha portato ad altri risultati tangibili.

Gli Stati Parti hanno preso decisioni chiave sulla condanna delle recenti minacce nucleari, sull’avvio dei lavori per la creazione di un fondo fiduciario a sostegno delle persone danneggiate dall’impatto delle esplosioni nucleari, sull’istituzione di un comitato consultivo scientifico, sulla fissazione di una scadenza di dieci anni per la distruzione delle armi nucleari, e sull’adesione di altri Paesi al Tpnw, al fine di fermare le minacce, la guerra e la corsa agli armamenti nucleari.

Queste decisioni si sono basate sulla testimonianza e sull’esperienza vissuta da coloro che conoscono in prima persona l’impatto delle armi nucleari. Il Piano d’azione sottolinea l’importante principio del “nessuna decisione che ci riguardi, senza ascoltare le nostre voci”, e garantisce che le persone più colpite siano maggiormente coinvolte nei processi decisionali e di implementazione delle norme del Trattato.

La Dichiarazione e il Piano d’azione di Vienna sono una strada per costruire una potente norma contro le armi nucleari: non attraverso dichiarazioni altisonanti o vuote promesse, ma grazie ad un’azione concreta e mirata che coinvolge una comunità veramente globale di governi e società civile.

“Le armi nucleari devono essere eliminate prima possibile. La Conferenza di Vienna ha sottolineato ancora una volta quanto lavorare insieme società civile, associazioni, attivisti scienziati e governi porti a risultati concreti – ha dichiarato Daniele Santi, presidente della campagna italiana Senzatomica – e continueremo a impegnarci dimostrando quanto sia efficace e potente questo partenariato pubblico-privato. Sono certo che anche in Italia insieme riusciremo a far diventare il disarmo nucleare un tema pubblico e che, come successo per la messa al bando delle mine anti persona e delle munizioni a grappolo, sarà determinante per la loro eliminazione totale”.

Soddisfazione piena da parte della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (che insieme al Comitato internazionale della Croce Rossa avrà uno status consultivo) e del mondo scientifico, dalle cui analisi sono derivate molte delle scelte prese a Vienna.

Purtroppo, nonostante una risoluzione in commissione Esteri della Camera votata da tutte le forze di maggioranza che chiedeva al governo di valutare una presenza a Vienna, l’Italia non si è presentata. Mancando l’occasione di un confronto costruttivo invece sperimentato da Germania, Belgio, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia… tutti Stati Nato o in qualche modo associati all’ombrello nucleare, che hanno partecipato alla conferenza almeno come osservatori. E che, oltre ad alcune scontate e prevedibili critiche, hanno espresso la volontà di essere coinvolti in un percorso collettivo, in particolare a riguardo dei cosiddetti “obblighi positivi” cioè quei progetti di trasparenza, sostegno alle vittime e rimedio ai danni ambientali che possono migliorare la situazione internazionale legata all’armamento nucleare.

Scelte che anche l’Italia potrebbe fare già ora, come da sempre chiesto dalla società civile, e che anche il Parlamento ha suggerito come strada possibile al governo, atteso a questa scelta da tutti gli Stati del Tpnw e dalla società civile che lo sostiene. Del resto sono molto forti e impegnative le frasi conclusive della Dichiarazione di Vienna: “Non ci fermeremo finché l’ultimo Stato non avrà aderito al Trattato, l’ultima testata non sarà stata smantellata e distrutta, e le armi nucleari non saranno totalmente eliminate dalla Terra”.

Affermiamo il diritto universale alla mobilità - di Tania Benvenuti

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Note a margine della Conferenza nazionale sull’Immigrazione della Cgil del 4 e 5 luglio scorsi.

Avere la delega alle politiche migratorie ha rappresentato per me l’esperienza più coinvolgente, appagante e con la più ampia trasversalità di argomenti che ci possa essere nella Confederazione. Occuparsi di immigrazione ti mette in discussione, fa cadere i pregiudizi e gli stereotipi che purtroppo anche noi progressisti “occidentali” abbiamo nei confronti delle persone che provengono da altri Paesi, in particolar modo extraeuropei e/o di altra fede religiosa. Anche inconsapevolmente, abbiamo spesso uno sguardo frutto di un retaggio colonialista.

Le lavoratrici e i lavoratori migranti hanno bisogni particolari dei quali come organizzazione sindacale dobbiamo farci carico, sia per scelta politica che per una richiesta di rappresentanza che ci viene proprio con l’aumento dell’iscrizione. Il rinnovo del permesso di soggiorno, il ricongiungimento familiare, la carta di soggiorno, la cittadinanza e tutta la mole di burocrazia e di ritardi che queste procedure comportano hanno portato a coniare il termine di “razzismo istituzionale”, per indicare proprio quelle norme che ostacolano in tutti i modi una presenza dignitosa nel nostro Paese.

Da anni chiediamo che alcuni di questi documenti non passino attraverso le Questure, con ritardi anche di mesi, ma diventino atti amministrativi da fare nei rispettivi Comuni di residenza. La domanda di cittadinanza si è trasformata in una pratica lunga e complessa, spesso questi lavoratori si rivolgono a legali o associazioni che chiedono loro cifre allucinanti. È stato così anche per la sanatoria del 2020, che ancora non si è conclusa.

Da subito il coordinamento migranti della Cgil Toscana aveva dato una lettura critica di quella normativa, e purtroppo abbiamo avuto ragione: pochissime regolarizzazioni e dietro tanto sfruttamento, perché quando metti nelle mani dei soli “padroni” la procedura sappiamo bene che in alcuni settori il ricatto diventa la norma.

Nelle Camere del Lavoro è importante fare i Coordinamenti territoriali dei migranti di tutte le categorie, riunirli, partecipare attivamente alle discussioni che li riguardano, e soprattutto far sì che i migranti entrino a far parte degli organismi dirigenti: lo scarto di rappresentanza non è più sopportabile. Dobbiamo parlare di questo tema con tutti i nostri iscritti e delegati. Capisco che spesso è difficile, ma a noi le cose facili non sono mai toccate. Dobbiamo ribaltare il concetto di guerra dei penultimi contro gli ultimi.

Non si può prescindere dal fatto che migrare è il filo conduttore della storia dei popoli in ogni epoca e in ogni angolo del mondo. Le migrazioni avvengono per i più disparati motivi: le mutate condizioni climatiche, il commercio, spesso sono forzate, pensiamo allo schiavismo, cercare condizioni di vita migliori, lavoro, studio, guerre, conflitti e così via. L’essere umano in quanto tale dovrebbe avere il diritto universale a potersi spostare, a prescindere dalla condizione economica e sociale, per cercare di migliorare la propria vita.

Assistiamo ormai da anni alla costante alzata di muri attorno alla democratica Europa, ne abbiamo uno tra Marocco e Spagna, e le drammatiche immagini dei morti nella calca a Melilla sono la prova dell’ennesima tragedia annunciata. Come annunciate sono quelle del mare, dove ormai solo le denigrate Ong corrono in soccorso dei disperati che tentano di trovare un porto sicuro, spesso dopo essere stati rinchiusi nei famigerati lager libici, che l’Italia continua impunemente a finanziare. Poi abbiamo la rotta balcanica, dove si fa sentire forte la repressione nei boschi della polizia croata (e non solo) con pratiche orrende per impedire ai profughi di proseguire il viaggio verso la salvezza. Sono giovanissimi, vengono dalla Siria, dall’Afghanistan dal Pakistan, e oltre ai traumi subiti in patria ne subiscono di nuovi una volta raggiunta l’Europa.

Ma anche in Italia abbiamo i Centri di permanenza per i rimpatri, veri e propri centri di detenzione, come ad esempio quello di Gradisca d’Isonzo, dove le persone vengono rinchiuse in condizioni disumane con l’unica colpa di migrare.

La terribile emergenza dovuta alla guerra in Ucraina ci dice che un altro modo di fare accoglienza è possibile, un modo dignitoso e umano che dovrebbe essere esteso a tutti, altrimenti si tratta ancora di razzismo istituzionale.

La recente Conferenza nazionale sull’Immigrazione della Cgil ha lanciato un messaggio chiaro: non cedere mai su questi principi! Abbiamo un dovere morale, che la storia della nostra organizzazione e del movimento operaio ci consegna.

 

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