Reddito da lavoro e transizioni occupazionali: questione di classe - di Rocco Dipinto

La precarizzazione dei rapporti di lavoro è un dato di fatto. Essa non si limita all’utilizzo di forme contrattuali ancora oggi dipinte come “atipiche” (pur connotando la maggioranza delle nuove attivazioni): a Milano, ad esempio, la metà dei rapporti a tempo indeterminato cessa entro i primi due anni.

Presso la Camera del Lavoro di Milano è sorto lo sportello Politiche Attive, per dare supporto al Sol e alle categorie sindacali attraverso il monitoraggio dei percorsi di transizione dei disoccupati che si rivolgono alle nostre strutture (attraverso dei questionari).

Tra gli elementi indagati, vi sono anche le caratteristiche dei nuovi rapporti di lavoro incontrati, da quelle contrattuali/formali a quelle legate alla qualità percepita della nuova occupazione. Tre domande si riferiscono al reddito percepito: il confronto tra il salario del nuovo rapporto di lavoro e quello precedente, tra il salario e l’indennità percepita, infine una valutazione sulla capacità di condurre una vita dignitosa attraverso il nuovo contratto di lavoro (che potremmo considerare come valutazione soggettiva di povertà nel lavoro).

Purtroppo l’analisi delle risposte ricevute tra gennaio 2023 e agosto 2024 non è incoraggiante: una percentuale significativa di lavoratori dichiara infatti di subire una riduzione del reddito da lavoro a seguito della transizione, esperienza che cresce con il passare della durata di disoccupazione (si parla di circa il 40% delle risposte, mentre il 25% ha osservato un miglioramento).

Preoccupa anche il dato relativo al confronto con l’indennità precedente, alla quale la somma di chi dichiara di ricevere uno stipendio minore con chi ne percepisce un valore simile equivale ad un terzo dei rispondenti. Proporzioni simili anche sul quesito circa la capacità di condurre una vita dignitosa grazie al reddito da lavoro del nuovo rapporto, la quale si aggrava per chi si è rioccupato dopo nove mesi di disoccupazione (le risposte negative superano il 50%).

Le politiche attive del lavoro, indicate da circa trent’anni come strumento per garantire una sicurezza occupazionale nel “mercato del lavoro”, come adattamento di un’organizzazione produttiva che non consente più di scommettere sulla “sicurezza nel lavoro”, non sembrano in grado di soddisfare le attese: infatti non emerge un vantaggio per coloro che dichiarano di aver individuato un chiaro riferimento per la presa in carico rispetto ad altri soggetti.

Addirittura l’affidamento ad un soggetto sembra comportare una probabilità superiore di accettare un lavoro con reddito inferiore rispetto al passato: probabilmente le politiche attive, almeno in parte, si caratterizzano come strumento di educazione all’abbassamento delle aspettative, come strategia per massimizzare le probabilità di uscire dallo stato di disoccupazione. Purtroppo, anche discriminando in base alla partecipazione o meno a percorsi di orientamento e formazione professionale, non si nota un effetto migliorativo del percorso, con riferimento a queste tre dimensioni relative alla sfera del reddito.

Contano maggiormente le caratteristiche individuali, sia acquisite quali il titolo di istruzione (per quanto riguarda la probabilità di accedere ad uno stile di vita dignitoso, mentre impatta meno sulla protezione da riduzione relativa del reddito), che ascritte, come lo status di migrante, il quale sembra connesso ad una maggior probabilità di sentirsi poveri pur lavorando. La questione è aggravata dal fatto che i migranti hanno probabilmente aspettative minori già in partenza rispetto agli autoctoni.

Per le persone fino a 35 anni compiuti, si nota una forte polarizzazione tra chi trova lavoro in poco tempo e gli altri: dunque a discapito della tesi di giovani “choosy”, assistiamo verosimilmente ad una pressione morale all’attivazione lavorativa anche quando le condizioni non vengono ritenute dignitose, assumendo probabilmente il giovane la funzione di terzo reddito familiare integrativo, sul quale il capitale può quindi insistere sull’abbassamento delle aspettative reddituali.

Le tre variabili sono positivamente connesse alla soddisfazione lavorativa complessiva, rilevata con una domanda apposita: la connessione è fortissima in particolare con la povertà lavorativa soggettiva.

Per concludere, l’osservazione dei percorsi di riattivazione delle persone che intercettiamo ci pone degli interrogativi strategici in termini di rappresentanza di lavoratrici e lavoratori che subiscono la strategia della precarizzazione dei percorsi di vita lavorativa, visto che anche un contesto economico relativamente ricco, in termini comparativi, non si dimostra garanzia di opportunità di sviluppo personale per chi non vive di rendita o del lavoro svolto da altri.

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