Tra elezioni e concorrenza globale, successo dello sciopero dei portuali dell’East Coast Usa - di Giovanni Monaci

E’ durato solo tre giorni lo sciopero tra i 25mila lavoratori di 14 grandi porti statunitensi della costa orientale e del golfo del Messicodal Maine alla Florida al Texas, iniziato il primo ottobre scorso, dopo il fallimento delle trattative tra l’International longshoremen’s association (Ila), che rappresenta 45mila portuali, e la Us Maritime alliance, organizzazione dei datori di lavoro del settore.

Gli iscritti all’Ila hanno paralizzato per tre giorni i terminali per navi cargo che gestiscono più della metà delle importazioni e delle esportazioni statunitensi, chiedendo un aumento salariale del 77% nei prossimi sei anni come condizione per riprendere i negoziati.

Il 3 ottobre hanno accettato di sospendere lo sciopero dopo che la Maritime alliance ha offerto un aumento in busta paga del 62%, 24 dollari l’ora in più in sei anni, portando la paga massima da 39 a 63 dollari orari.

I membri dell’Ila erano rimasti indietro rispetto ai portuali della West Coast (organizzati dall’Ilwu), la cui retribuzione iniziale nel contratto più recente (40 dollari) superava la loro retribuzione massima (39 dollari). Quello dei giorni scorsi è stato il primo sciopero costiero proclamato dall’Ila dal 1977.

La protesta, sottolineava la stampa mainstream Usa, rischiava di danneggiare l’intera economia nazionale: secondo alcuni analisti, ogni settimana di blocco poteva costare tra i 4,5 e i 7,5 miliardi di dollari.

Dietro la protesta dei portuali non ci sono solo rivendicazioni salariali. I lavoratori temono le innovazioni tecnologiche introdotte nel settore, considerate una minaccia all’occupazione. L’Ila ha accettato di estendere fino al 15 gennaio 2025 il contratto scaduto: entro questa data si svolgeranno i negoziati per un nuovo accordo, che dovranno affrontare anche il problema dell’automazione, con la richiesta dell’Ila che le aziende limitino la diffusione dei robot, anche se i terminal statunitensi sono ormai arretrati rispetto a quelli di altri paesi.

Quasi settant’anni fa, il 26 aprile 1956, salpò da Newark la prima nave porta-container, un’innovazione che ha ridotto i costi delle aziende: in precedenza caricare una nave costava in media sei dollari alla tonnellata, in seguito si scese a circa sedici centesimi di dollaro, impiegando molti meno operai.

Nel 2024 le cose stanno andando allo stesso mododa tempo le aziende cercano di limitare il peso dei lavoratori investendo nell’automazione. Nei porti di Los Angeles e Long Beach, in California, dove passa il 40% delle importazioni statunitensi attraverso i container, i robot hanno permesso di eliminare quasi il 5% dei tredicimila posti di lavoro.

L’influenza del sindacato e la lotta dei lavoratori sono stati favoriti dalle imminenti elezioni presidenziali. Joe Biden si è rifiutato di interrompere lo sciopero, come chiedevano a gran voce gli spedizionieri invocando i poteri di emergenza del Taft-Hartley Act. Il 2 ottobre, il segretario ai trasporti Pete Buttigieg aveva sottolineato che, mentre i datori di lavoro avevano visto i loro profitti aumentare di circa il 350% in dieci anni, i salari dei portuali erano aumentati solo del 15%.

I funzionari dell’amministrazione Biden hanno fatto pressione sui datori di lavoro per trovare un accordo. L’Ila ha avuto buon gioco nella sua propaganda sugli operatori terminalisti “diventati davvero ricchi durante il Covid quando tutti sono rimasti a casa, mentre la nostra gente andava a lavorare ogni singolo giorno e alcuni sono morti sul lavoro”.

Ma la posta in gioco, per la politica americana, è anche molto più alta: i porti sono un’infrastruttura strategica dell’economia globalizzata. Oggi gestiscono almeno l’80% dei 25mila miliardi di dollari di merci scambiate ogni anno, e sono fortezze economiche al centro dello scontro tra le grandi potenze nel mondo multipolare. Non a caso sono oggetto di costose e dolorose riconversioni alle tecnologie digitali, all’automazione e all’energia pulita, con investimenti stimati in circa duemila miliardi nell’arco del prossimo decennio.

Tra i maggiori protagonisti c’è la Cina, dove si trovano sette dei dieci principali porti commerciali a livello mondialenessuno in Europa e nelle Americhe. Pechino investe anche in altri continenti. A novembre è prevista l’inaugurazione del porto di Chancay, fino a poco tempo fa un tranquillo villaggio di pescatori peruviano, destinato a modificare radicalmente gli scambi commerciali tra il Sud America e l’Asia.

La Cina è attiva anche in Europa. Nel 2016 l’armatore Cosco ha rilevato il 65% del Pireo; La Cosco e la China Merchants Port gestiscono terminali in quattordici porti europei, tra cui Le Havre e Marsiglia, Rotterdam, Anversa, Bilbao e Genova.

Anche l’India si sta inserendo nella corsa al commercio marittimo. Entro il 2030 New Delhi prevede di concludere i lavori per il porto di Vadhvan, vicino a Mumbayinfrastruttura del costo di nove miliardi di dollari, in grado di gestire 23 milioni di container.

In tutti questi progetti gioca un ruolo fondamentale quell’automazione contro cui si stanno mobilitando i lavoratori statunitensi.

 

(17 ottobre 2024)

 

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