Battaglia navale - di Sinistra Sindacale

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C’è una giudice ad Agrigento. Con un chiaro riferimento alla Costituzione e al diritto internazionale, ha smontato puntualmente le accuse alla capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete. Accuse che, prima ancora che dal pm, erano venute dal ministro dell’interno, con il consueto spregio istituzionale e l’usuale volgare violenza sessista. Salvare vite umane, portare i profughi-naufraghi nel porto sicuro più vicino, sottrarli agli aguzzini dei centri di detenzione libici non è un reato, ma il pieno compimento di obblighi di legge e di diritto. E un sacrosanto impegno etico, civile, umano. La rabbia di Salvini – e dei suoi sodali 5 Stelle – si sfoga ora sull’Ong Mediterranea.

L’unica politica migratoria del governo (in buona compagnia europea) è quella di lasciare marcire i migranti nelle galere libiche o lasciarli affogare nel mar Mediterraneo, se sono riusciti ad attraversare il Sahara miracolosamente indenni. Da ora in poi, secondo Salvini, i “sacri e inviolabili” confini della patria saranno difesi da droni di avvistamento fin sulle coste di Tunisia e Libia, e da navi da guerra italiane al limite delle acque territoriali, per impedire la supposta “invasione” di qualche centinaio di profughi e richiedenti asilo. In sei mesi ne sono arrivati addirittura 3.153...!

Lega e 5 Stelle dovevano “spezzare le reni” all’Europa. Fallito l’obiettivo – mai realmente a portata di mano – ora tornano a rivolgere tutte le loro attenzioni ai “nemici” di sempre: i migranti, per interposta Ong. La guerra è chiara e conclamata. Così siamo passati da una Marina Militare che salva 150mila naufraghi con l’operazione “Mare nostrum”, alla stessa Marina che li ricaccebbe in Libia – adesso nemmeno Salvini può definirlo un paese sicuro - e si girerebbe dall’altra parte di fronte agli annegamenti.

Non sono da meno le altre misure del decreto “sicurezza bis”. Secondo il sindacato di polizia Silp Cgil, “si assiste a una escalation della criminalizzazione delle condotte che è iniziata dall’immigrazione, dalle frontiere, ed è giunta alle riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero nelle piazze, cuore del paese e luoghi dove i cittadini esprimono opinioni”. La facile ricerca del consenso carica sulle spalle delle forze dell’ordine l’aspettativa dei risultati promessi dalla propaganda, ma mira a esasperare i problemi, “specie durante le occasioni di protesta, inasprisce la contrapposizione tra i cittadini dissenzienti, che vengono etichettati come nemici, e chi è deputato a far rispettare la legalità, quindi a contemperare la difesa dei diritti di tutti”.

Se aggiungiamo i forsennati attacchi ai magistrati che non si adeguano alle aspettative di Salvini, la puzza di voglia di regime è nauseabonda. Ma ci sono un’altra Europa e un altro paese: quelli di Carola, di Tommaso Stella, della campagna “Io accolgo”, delle famiglie di “Welcome Refugees”, dei corridoi umanitari. Delle Ong, dell’associazionismo laico e cristiano, democratico. Dei sindacati e della Cgil. Perché noi non ci giriamo dall’altra parte.

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Per costruire insieme il futuro dei ciclofattorini, un futuro di dignità, diritti, tutele e sicurezza, è partita da Bari, Bologna, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Roma e Torino la campagna “No easy riders”, promossa dalla Cgil. In questo mese di luglio sono in programma numerose iniziative e volantinaggi, soprattutto davanti ai luoghi di lavoro abitualmente “frequentati” dai ciclofattorini, in prima fila Burger King e Mc Donald’s, senza comunque dimenticare i Runner Pizza spuntati come funghi, al pari di tante altre aziende il cui core business è la consegna di cibo a domicilio.

La Cgil ha deciso così di scendere in strada, facendo pressione sulle piattaforme del food delivery per denunciare lo sfruttamento dei ciclofattorini, e proporre al tempo stesso cornici legislative e contrattuali che assicurino diritti e tutele. “Per noi – ribadisce il sindacato di Corso d’Italia - è chiarissimo che queste prestazioni lavorative sono a carattere dipendente, ed è quindi fondamentale che rientrino nei contratti collettivi nazionali, a partire da quello della logistica. Tutto il mondo del lavoro deve avere stessi diritti e protezioni sociali, come una retribuzione equa, il diritto al riposo, alle ferie, al Tfr, alla disconnessione, alla previdenza, alla salute e alla sicurezza”.

La presa di posizione della Cgil, va da sé, è meritoria: un lavoro senza uno stipendio certo, senza sicurezze, e in dei conti senza dignità, è un lavoro che non può avere cittadinanza in un paese fra i più industrializzati del pianeta, e con una solida tradizione sindacale. Sono chiamate a rispondere le imprese, che a parole si dicono innovative, ma che nei fatti sono spesso chiuse a ogni evoluzione dei rapporti di lavoro. Ma anche il governo giallobruno deve dare risposte, e non limitarsi a promesse che vanno avanti ormai da mesi.

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La manovra correttiva c’è, ma travestita - di Alfonso Gianni

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La buriana per il momento è passata. Il temutissimo spread è sceso sotto i 200 punti, il che allevia l’onere sui debiti da pagare. Il ministro Tria, da vaso di coccio tra due vasi di ferro, è diventato la nuova star del governo, soprattutto agli occhi dei mercati internazionali. Era partito per Bruxelles solo con l’augurio “io speriamo che me la cavo”, e alla fine il collegio dei commissari europei ha deciso di non infierire, cioè di non raccomandare all’Ecofin l’avvio della procedura per deficit eccessivo contro l’Italia. Il commissario Moscovici ha ritenuto che le tre condizioni poste - compensare lo scarto per il 2018, quello del 2019 pari a 0,3 punti di Pil, e le garanzie sul bilancio del 2020 - sarebbero state rispettate dalle scelte e dagli impegni assunti per iscritto dal governo italiano.

La decisione non sorprende. Era chiaro fin dall’inizio che l’Italia era un paese ‘too big to fail’. D’altro canto, per una Ue già alle prese con il pasticcio della Brexit, caricarsi anche la gestione di una simile procedura sarebbe stato troppo. Nello stesso tempo per la sopravvivenza del governo italiano evitare la procedura era vitale.

Detto questo, non è che la decisione dei commissari sia stato un gentile cadeau. E’ costato eccome. L’hanno chiamato assestamento di bilancio, ma il “decreto salva conti” licenziato dal Consiglio dei ministri è una manovra correttiva a tutti gli effetti, quella di cui Tria ha sempre dichiarato che non ci sarebbe stato bisogno. La sua portata è come minimo di 7,6 miliardi di euro - ma potrebbe arrivare agli 8,2 – ed è in sostanza la cifra che avevamo indicato in precedenti articoli.

Infatti non solo restano congelati i due miliardi di euro destinati alle spese dei ministeri, cosa ormai scontata, ma si destinano in modo diretto ai saldi di finanza pubblica le minori spese derivanti dalle due misure chiave del governo, ovvero il cosiddetto reddito di cittadinanza – che se fosse tale non meriterebbe alcun risparmio, anzi – e Quota 100. Allo stesso scopo si utilizzerebbero le maggiori entrate derivanti dalla introduzione della fatturazione elettronica, dai dividendi delle partecipate (altro che 18 miliardi di privatizzazioni promesse in sede Ue) e della Cassa depositi e prestiti.

Tutto ciò non varrebbe solo per il pregresso, ma pone una pesante ipoteca sul dopo, visto che nella lettera firmata da Conte e Tria ci si impegna a un “aggiustamento strutturale significativo nel 2020”. Ha voglia Salvini di esultare e rilanciare sulla fattibilità della flat tax.

Il “decreto salva conti” inserisce una clausola a garanzia anche per il prossimo anno. Nella manovra dello scorso autunno veniva creato un meccanismo di “vasi comunicanti” per cui le mancate spese per il cosiddetto reddito di cittadinanza sarebbero state dirottate a coprire quelle per Quota 100, e viceversa. Le nuove norme cancellano invece questa possibilità di scorrimento, destinando tutto il risparmiato – visto che i due istituti, come ha detto anche Maurizio Landini, non funzionano affatto - alla diminuzione del debito.

L’assoggettamento del governo pentaleghista all’austerità è quindi certificato. Il furore sovranista è lasciato alla propaganda, mentre nella pratica ci si mette in riga. Né le nuove nomine europee si presentano, almeno in partenza, come più tenere e comprensive. Gli organi di controllo europei sono stati chiari: passeranno al colino fine le misure della prossima legge di bilancio per il 2020.

I problemi rimangono quindi sul tappeto. In particolare la questione della sterilizzazione dell’incremento dell’Iva. Non è un caso che Tria non perda occasione per far sapere quello che in fondo aveva detto fin dall’inizio, e cioè che l’incremento dell’Iva, pur con qualche addolcimento, non sarebbe per lui un dramma. Lo ha ripetuto pochi giorni fa al ‘Sole24Ore’: “Sono sempre stato convinto che l’imposizione fiscale vada riequilibrata, riducendo la fiscalità diretta a favore delle imposte indirette”.

Intanto Salvini si arrampica su un improbabile mix di flat tax e di taglio del cuneo fiscale. Indirettamente ma implicitamente gli dà man forte Nicola Rossi, un tempo deputato del Pd, ora consigliere del centro di ricerca ultraliberista Bruno Leoni, scomodando Luigi Einaudi per sostenere che “anche un’aliquota unica, unita ad un’area di reddito iniziale non tassata … ha un esito moderatamente progressivo”. Peccato per lui che la nostra Costituzione, all’articolo 53, non faccia cenno a esiti finali di meccanismi contorti, ma a principi senza aggettivi diminutivi, affermando con nettezza che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Non sarà un autunno tranquillo per nessuno.

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Giovedì 4 luglio si è tenuta un’assemblea regionale, promossa da Cgil e Spi del Veneto, sulla contrattazione sociale e territoriale. Per la Cgil un ambito di intervento strategico, che si colloca pienamente nell’obiettivo generale della contrattazione inclusiva.

La contrattazione sociale territoriale è di per sé inclusiva, pilastro non scindibile dall’azione nei luoghi di lavoro. E’ la nuova frontiera del sindacalismo confederale, in grado di coniugare diritti del lavoro e diritti di cittadinanza. Con la doppia funzione di acquisire una tutela complessiva delle condizioni di reddito e di vita e di estenderla anche a chi riusciamo a tutelare con maggior fatica con gli strumenti contrattuali tradizionali. Il vasto mondo della precarietà, del lavoro povero, della disoccupazione, delle nuove forme di lavoro, delle nuove professionalità, dell’universo giovanile, del lavoro di cura, della disabilità, della non autosufficienza, dell’immigrazione.

Contrattazione territoriale significa tentare di governare e orientare il rapporto tra innovazione tecnologica, salvaguardia dell’ambiente, del territorio, della salute, riconversioni produttive e tutele occupazionali, tra esigenze formative e professionali, politiche attive del lavoro e qualità del lavoro e delle retribuzioni, tra welfare integrativo e welfare universale, con l’attenzione a ridurre le diseguaglianze. Significa intervenire con continuità sugli ambiti più tradizionali dei servizi socio-sanitari e assistenziali ma anche su una dimensione più complessiva.

Ecco un lungo elenco di temi importanti: reti e infrastrutture, Spl, politiche della conoscenza, istruzione e formazione, politiche abitative, immigrazione e accoglienza, sostegno al reddito, invecchiamento attivo, garanzie di accesso e qualità dei servizi e delle prestazioni essenziali, tariffe, compartecipazione alla spesa, politiche di bilancio, tassazione locale. 

Basti pensare ai possibili interventi sull’utilizzo delle addizionali Irpef per i redditi più alti, alle esenzioni per quelli più bassi, alla definizione di Patti anti-evasione. Insomma significa provare a orientare, anche a livello locale, le scelte su sviluppo produttivo, politiche di welfare, reperimento e gestione delle risorse in una prospettiva di sostenibilità economica, sociale e ambientale, di redistribuzione della ricchezza e di riduzione delle diseguaglianze. E’ il terreno più idoneo per declinare a livello territoriale gli obiettivi strategici che abbiamo indicato nel nostro Piano del lavoro, nella conferenza d’organizzazione e nel congresso, nella Carta dei diritti universali del lavoro.

I nostri Osservatori confermano una forte disomogeneità della nostra pratica negoziale tra le diverse aree del paese, ma anche all’interno delle singole regioni, e un ambito di intervento ancora prevalentemente limitato al confronto con i comuni e riferito alle politiche socio-sanitarie-assistenziali e a quelle fiscali e di bilancio. 

Dobbiamo fare un salto di qualità nella capacità di programmazione e iniziativa per estendere l’azione negoziale, per ampliare le materie e gli interlocutori negoziali, per migliorare la qualità dei risultati. Centrale e determinante è il ruolo delle Camere del Lavoro e l’azione concreta nel territorio.

Non dobbiamo inventarci nulla. Serve dare coerente concretezza a quello che da tempo ci diciamo: più confederalità, forte sinergia tra tutte le strutture, coinvolgimento di tutte le categorie e del sistema dei servizi. Soprattutto è necessario estendere a tutto il gruppo dirigente e a tutta la nostra rappresentanza la consapevolezza dell’utilità della contrattazione sociale territoriale per una tutela complessiva dei diritti e delle condizioni di vita. Dobbiamo farlo costruendo percorsi unitari con Cisl e Uil, e anche con le diverse associazioni di rappresentanza sociale presenti nel territorio. Così come dobbiamo rafforzare i percorsi di partecipazione all’analisi dei bisogni, all’elaborazione delle piattaforme, alle modalità di sostegno, alla verifica e al consenso sulle intese, alla visibilità e valorizzazione dei risultati raggiunti.

In una fase così complicata è oggettivamente difficile portare a casa grandi risultati. Ma ci sono ampi spazi di rappresentanza, tutela e intervento per la nostra iniziativa, per orientare le scelte e selezionare le priorità. E, al di là dei risultati, esercitare una funzione di rivendicazione, presentare piattaforme, sostenerle con la mobilitazione qualifica e rafforza il nostro insediamento e la nostra capacità di proselitismo e tesseramento. Dà un senso compiuto all’obiettivo strategico di una rappresentanza generale e inclusiva, di tutela della dimensione complessiva della cittadinanza, di lavoratori, disoccupati, pensionati, giovani, immigrati, per affermare un modello sociale basato su universalità, inclusività e solidarietà nei diritti sociali e del lavoro.

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