Viva la Cgil! - di Giacinto Botti

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Fra le tante cattive notizie sul quadro internazionale - dalle guerre dei dazi e delle armi al coronavirus, con le sue pesanti conseguenze sulla vita di milioni di persone, sulla crescita e l’occupazione - una buona notizia: il Comitato europeo dei diritti sociali ha accolto il ricorso della Cgil alla “controriforma” del mercato del lavoro del governo Renzi. L’Italia, con il jobs act, ha violato la Carta sociale europea che sancisce il diritto alla reintegra per ogni lavoratore licenziato ingiustamente.

Nell’anno in cui si celebra il cinquantennale della storica conquista dello Statuto dei Lavoratori, è davvero una buona notizia per noi che vogliamo rimettere al centro del confronto politico i diritti universali per tutte e per tutti attraverso la nostra Carta dei diritti, il nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori. Abbiamo raccolto milioni di firme per sostenerla, insieme ai referendum che ci sono poi stati scippati. Avevamo dunque ragione nel condurre le nostre battaglie coerenti e autonome in difesa dei diritti non disponibili, contro il lavoro precario, sfruttato e schiavizzato.

Viva la Cgil! La sentenza del Comitato ci dà forza nella nostra azione contrattuale nei luoghi di lavoro e nel territorio. E dovrebbe essere monito al governo, alla politica, a chi ha prodotto quello strappo con il mondo del lavoro. E invece c’è chi continua a sostenere, con fastidiosa protervia, la bontà di quella riforma, peraltro smentita da tutti i dati su quantità e qualità dell’occupazione. Si continuano a perdere posti di lavoro a tempo indeterminato, i precari arrivano a 3 milioni e 123mila, un nuovo massimo storico. Mentre tra novembre e dicembre si registra la perdita più consistente di posti di lavoro nelle fasce di età tra 25 e 49 anni, con 79 mila occupati in meno. E non sono solo numeri, ma persone e famiglie con i loro drammi.

Come Cgil dobbiamo continuare a mantenere alta la nostra visione di futuro, il nostro progetto e la nostra idea di paese, e affiancare sempre alla coerente e dura lotta sociale ed economica una battaglia di ordine generale, valoriale e culturale, così come abbiamo scelto di fare con il documento congressuale e ribadito nel documento finale del Comitato direttivo del 3 e 4 febbraio scorsi.

Come diceva Gramsci: “La fantasia politica ha per elementi gli uomini, la società degli uomini, i dolori e gli affetti, la necessità di vita degli uomini”. Un richiamo a ripartire proprio dalle condizioni sociali e materiali delle persone. Guai se, come una certa politica e certi governi, perdessimo la capacità di mettere al centro le condizioni lavorative e sociali: perderemmo anche il diritto di parola e di rappresentanza.

I dati Istat e Censis sono allarmanti. Fotografano un paese diseguale, attraversato da odi e rancori, da divisioni vecchie e nuove, con una sofferenza sociale diffusa, strumentalizzata da una destra reazionaria che alimenta la disgregazione del tessuto sociale e spinte corporative, nazionaliste e razziste. Un paese dove il numero dei cittadini che non lavorano supera quello di chi lavora, che invecchia con un significativo calo demografico e perde competitività, arretrando nel suo tessuto produttivo con la chiusura e il ridimensionamento di significative realtà industriali, commerciali e di logistica. Un paese avvitato sulle lobby e sugli interessi particolari e corporativi, con storture, corruzioni e ingiustizie storiche, palle di piombo al piede delle nuove generazioni, private di un futuro degno.

Le ragioni stesse del dramma sociale ed economico della recessione demografica vanno ricercate nelle condizioni materiali di giovani coppie, famiglie con redditi bassi, lavoro precario e salario misero. Non a caso le nascite crollano nel Meridione e nelle realtà meno abbienti, dove mancano strutture pubbliche, asili, protezioni lavorative e sociali adeguate per le madri e i padri.

I dati sono impietosi: 18 milioni di persone a rischio di esclusione sociale, 9 in povertà relativa e 5 in povertà assoluta. Ben 10 milioni hanno difficoltà a farsi curare. Quattro sono i milioni di lavoratori poveri, un milione i minori nell’indigenza. Una vergogna ignorata, colpevolmente rimossa e resa invisibile. Il frutto velenoso e amaro di oltre vent’anni di politiche sbagliate di chi ha governato. Sia stato di destra o di sinistra, si sono sostanzialmente applicate le stesse ricette neoliberiste: tagli al sociale, fiscalità regressiva, nessuna riforma innovativa di welfare, attacco al sistema pensionistico pubblico per fare cassa, mancate bonifiche ambientali, nessuna prevenzione in difesa del suolo, precarizzazione del lavoro, privatizzazioni dei beni pubblici, mancati investimenti pubblici e privati. E ancora, aumento delle diseguaglianze e darwinismo sociale, criminalizzazione della solidarietà, della diversità, dell’immigrato, delegittimazione delle rappresentanze sociali, guerra tra poveri, aumento della corruzione e della criminalità, imbarbarimento culturale e crescita dei movimenti razzisti, antisemiti e xenofobi. E con un Meridione del paese lasciato alla deriva.

Persino lo stato di salute della nostra democrazia parlamentare e sociale non è buono. Soffia il vento dell’antipolitica, del taglio dei parlamentari e della rappresentanza politica come panacea dei mali d’Italia. Siamo sotto la spinta divisiva e regressiva dei regionalismi, il “prima gli italiani” si trasforma nel “prima i veneti, i lombardi o i pugliesi”. L’autonomia differenziata è un cavallo di Troia; qualsiasi forma possa assumere, mette in pericolo l’unità del paese, disarticolando le garanzie costituzionali e l’universalità dei diritti fondamentali: istruzione, sanità, politiche ambientali e industriali. Garanzie e diritti che ci rendono cittadini uguali, ci identificano come “popolo”, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione. È un’autonomia pericolosa che favorisce anche la spinta alla frammentazione del diritto al lavoro e la rimessa in discussione dei contratti nazionali.

La democrazia è confronto e conflitto tra interessi, ceti, professioni, partiti e classi, e la Cgil oggi è un soggetto generale con una robusta autonomia, forte della sua rappresentanza sociale e dei suoi interessi, di parte ma non corporativi, e del suo progetto inclusivo rappresentato dal quadrato rosso.

La strada per ricostruire un’idea di paese che si fondi su sviluppo, coesione sociale e sostenibilità ambientale, con un lavoro di qualità e con diritti universali per tutte e tutti non è breve né facile. Occorre recuperare risorse dall’evasione, dalle grandi ricchezze, fare investimenti selettivi e politiche robuste, non pannicelli caldi. Non ci sono scorciatoie demagogiche o populiste. Per far vincere la democrazia, la civiltà e l’umanità occorre una battaglia culturale, e occorre costruire un’alternativa sociale ed economica alla destra. Nessuna risposta politicista, governista, nessuna alleanza spuria tra forze politiche o sociali può reggere la sfida del futuro se non si ha un progetto, una visione di prospettiva, se non si danno risposte concrete e nuove alle condizioni materiali e alle sofferenze sociali dei cittadini e dei lavoratori.

Solo la discontinuità, anche sui decreti infami, socialmente pericolosi di Salvini e sull’accordo con la Libia, e il coraggio del fare possono dare un senso a questo governo. E solo così si può ricostruire, riunificare e rilanciare una sinistra dispersa e con un’identità incerta, in un paese in cui si respira che cosa è la destra, ma non ancora che cosa è la sinistra.

Solo il movimento sindacale confederale unito, una Cgil coesa e plurale, forte delle sue proposte, del consenso e della partecipazione delle sue iscritte e dei suoi iscritti, possono riunificare e rappresentare il mondo del lavoro frammentato e diviso. Possono dare voce e centralità al lavoro e fornire rappresentanza sociale al patrimonio umano di civiltà e di solidarietà tra uguali che innerva ancora il paese. Per contribuire ad affermare i principi fondanti della nostra Costituzione e costruire l’utopia del possibile e il paese del futuro.

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Nei giorni scorsi si è riaperta la discussione sulla possibile apertura in Toscana di un Cpr (ex Cie), cioè “Centro di permanenza e di rimpatrio per i migranti”. A dar fuoco alle polveri il sindaco fiorentino Dario Nardella del Pd, che ha improvvidamente rispolverato un argomento che sembrava, per fortuna, ormai confinato in archivio. Per tutta una serie di sacrosanti motivi.

Mentre la destra a trazione leghista si è subito mobilitata per sostenere la necessità di aprire un centro di detenzione per migranti la cui unica colpa sarebbe quella di non avere i documenti in regola, la Camera del Lavoro di Firenze e la Cgil Toscana hanno preso meritoriamente posizione, in parallelo con le forze politiche (Mdp Articolo 1, Sinistra italiana, Rifondazione comunista, Potere al popolo) a sinistra del Pd. “Abbiamo sempre considerato un valore politico e culturale la scelta di non aver mai voluto aprire nella nostra regione un simile centro – ricordano sul punto il segretario regionale toscano Maurizio Brotini e Gianluca Lacoppola della segreteria fiorentina della Cgil – perché cambiano i nomi ma restano centri in cui rischiano di finire non certo efferati criminali come si vuol far credere, ma persone colpevoli solo di non avere documenti validi o di dover essere ancora identificati. Ritenere che, senza alcun tipo di condanna dell’autorità giudiziaria, si possa prevedere di togliere la libertà personale, è un errore gravissimo, che ha conseguenze anche nel nostro modo di intendere il senso di convivenza civile. I diritti costituzionali, per volontà dei nostri padri costituenti, si applicano a tutti e tutte, non solo ai cittadini italiani”.

Ben più intelligente, viene infine osservato, sarebbe impiegare le (poche) risorse a disposizione in percorsi di accoglienza e integrazione. Abolendo, va da sé, i “decreti sicurezza” di Matteo Salvini.

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Un No fermo e convinto al taglio dei parlamentari - di Alfonso Gianni

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Poiché, il 29 marzo, si tratta di referendum su norme costituzionali, non è necessario il raggiungimento di alcun quorum. In altre parole l’esito dipenderà dal rapporto fra i No e Sì, qualunque sarà il numero dei votanti. I sostenitori del Sì ritengono l’esito scontato perché i parlamentari non sono popolari, dopo anni di campagna qualunquista e populista. Certo: la battaglia è difficile. Ma il No intende intraprenderla con decisione, anche perché non è detto che gli elettori del Pd e di Leu siano d’accordo con il voto dato nell’ultima votazione dai loro rappresentanti, dopo che per tre volte avevano votato contro.

Non è la prima volta che i cittadini votano su quesiti referendari che concernono anche la riduzione dei parlamentari e sono stati sempre respinti. Mi riferisco alle revisioni costituzionali proposte dal centrodestra che prevedevano, tra le altre cose, una Camera di 518 deputati (elettivi) e un Senato di 252 membri: il referendum popolare del 2006, superando persino il quorum dei votanti che ora non è necessario, bocciò la legge di revisione costituzionale. La stessa cosa successe nel 2016 alla legge Renzi-Boschi, che, lasciando inalterato il numero dei deputati, riduceva il Senato a 95 membri elettivi di secondo grado (eletti dai Consigli regionali o provinciali autonomi).

Il taglio dei parlamentari lede il principio della rappresentanza politica. Infatti meno sono gli eletti e più distante è il loro rapporto con gli elettori e il territorio. È possibile fare una comparazione fra i paesi Ue, relativamente alla camera bassa, mentre per quella alta, il Senato, è cosa è impossibile data la diversità tra i vari paesi sul metodo di elezione e le funzioni dell’organo. Ora l’Italia risulta avere un numero di deputati per 100mila abitanti pari a 1 (96.006 abitanti per deputato) di un decimale superiore a Germania (0,9), Francia (0,9), Paesi Bassi (0,9) e di due rispetto alla Spagna (0,8). Tutti gli altri paesi, la maggioranza, sono al di sopra. Se entrasse in vigore la legge su cui è indetto il referendum, la percentuale italiana scenderebbe allo 0,7, inferiore a tutti gli altri paesi della Ue.

Abbiamo certamente bisogno di un Parlamento efficiente. Come è noto nel processo legislativo è cruciale il ruolo delle commissioni permanenti (14 alla Camera e 14 al Senato). Cui poi si aggiungono le varie Giunte, le commissioni speciali o straordinarie, le bicamerali. Le commissioni possono agire in sede referente (discutono un testo, nominano un relatore e lo affidano alla discussione e alla votazione finale all’aula plenaria), oppure in sede redigente (la commissione vota sugli emendamenti e consegna all’aula un testo finale su cui essa vota articolo per articolo e sul testo complessivo), o in sede legislativa (dove la commissione si sostituisce in toto all’aula e vara la legge). Riducendo il numero dei parlamentari si lascia il processo legislativo in mano a pochi di pochissimi partiti. Ad un’oligarchia.

Qualcuno dirà: riformeremo i regolamenti diminuendo il numero delle commissioni. Ma in questo modo si accorperebbero le materie ledendo il principio della specializzazione di competenze su cui le commissioni sono state previste e organizzate. In altre parole una simile riduzione dei parlamentari impedirebbe al Parlamento di funzionare correttamente.

Anche ora il Parlamento ha problemi di funzionamento. Ma non perché i suoi membri sono troppi. Questo deriva da un lato dalla pletora di decreti legge che il governo emana, dall’altro dalle leggi elettorali incostituzionali che si sono susseguite in questi anni, che hanno introdotto pesanti distorsioni maggioritarie e hanno impedito ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti, giungendo così a un Parlamento di “nominati”.

Il significato del No il 29 marzo è anche quello di chiedere una legge proporzionale pura con libera scelta da parte dei cittadini degli eletti. L’attuale proposta di legge in discussione alla Camera, il cosiddetto “Germanicum”, non garantisce nessuna di queste condizioni. La solidità dei governi – la famosa governabilità - non deriva dalla restrizione di democrazia, dalla riduzione del Parlamento a un esecutore dei voleri del consiglio dei ministri, ma al contrario da una corretta rappresentanza politica dei cittadini, che rende il Parlamento autorevole. Il risparmio che si otterrebbe con il taglio dei parlamentari equivale allo 0,007% del bilancio statale. Circa 1,35 euro per singolo cittadino: un caffè all’anno. Se si volesse veramente risparmiare basterebbe, ad esempio, bloccare l’acquisto degli aerei di guerra F35.

Il No ancora una volta è chiamato a difendere la Costituzione e la democrazia.

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Il Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa ha accolto il reclamo della Cgil sull’inadeguatezza del D.lgs 23/2015 (parte dei provvedimenti del jobs act) in relazione alla Carta Sociale Europea (art.24), che sancisce la tutela del lavoratore a fronte di un licenziamento illegittimo. Il Comitato rileva l’inadeguatezza della normativa italiana, anche dopo le modifiche introdotte dal “decreto dignità” (D.L.87/2018) del governo gialloverde, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 194/2018.

In sostanza il Comitato ha rilevato che gli strumenti dell’attuale legislazione italiana per risarcire il lavoratore a fronte di un licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, che nella maggior parte dei casi sono meramente economici, non realizzano una tutela adeguata. Che può essere garantita solo reintroducendo la sanzione della reintegra nel posto di lavoro o, in alternativa, un risarcimento del danno adeguato alle gravi conseguenze che il licenziamento provoca non solo dal punto di vista della perdita patrimoniale, ma anche dal punto di vista del diritto al lavoro, nei suoi aspetti di dignità della persona nel contesto lavorativo, sociale e familiare.

Questi concetti erano già stati espressi nella motivazione della sentenza della Corte Costituzionale 194/2019, che ha fatto un excursus dell’evoluzione storica e giuridica delle tutele accordate al lavoro nell’ambito della Costituzione, realizzate in gran parte nella legislazione degli anni ’70,’80 e ’90 e nel c.d. diritto vivente, ovvero nell’interpretazione delle Corti di legittimità e dei giudici di merito, ma poi progressivamente smantellate nei decenni successivi.

Questo fino ad arrivare al jobs act che ha realizzato il primato del diritto dell’impresa, allargando a dismisura il concetto espresso del primo comma dell’art.41 della Costituzione (“l’iniziativa economica privata è libera”) a scapito del secondo comma (“non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”) e del terzo comma (“la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali”).

Anche la Corte Costituzionale aveva richiamato l’art.24 della Carta Sociale Europea nell’abolire l’automaticità del risarcimento a seguito di licenziamento ingiusto legata alla mera anzianità di servizio. Ma la Corte non è andata oltre, perché vincolata dalle ordinanze dei giudici di merito che avevano sollevato la questione di illegittimità costituzionale solo sotto questo profilo. Peraltro la Corte ha dettato precisi indirizzi al legislatore nel senso di ripristinare il diritto del e al lavoro, così come concepiti nella Costituzione.

Dunque dal Comitato di Strasburgo un’altra picconata al jobs act, come giustamente rileva la Cgil, presentatrice del reclamo accolto.

Altre ordinanze di rinvio alla Corte Costituzionale sono state pronunciate da giudici di merito sotto altri profili (in particolare in tema di licenziamenti collettivi che danno luogo, in base all’art.10 del D.lgs 23/2015, solo ad un risarcimento anche se violate le procedure della trattativa sindacale o i criteri di scelta dei lavoratori).

Ma il complesso normativo denominato jobs act contiene altre numerose norme in danno ai diritti dei lavoratori. Basti richiamare la previsione della sua applicazione (art.1, comma 3) laddove l’azienda, in virtù di assunzioni successive al 7 marzo 2015 superi i 15 dipendenti, anche ai lavoratori assunti precedentemente, che vengono così a perdere anche le tutele previste nella legge 92/2012 (legge Fornero), già più limitate rispetto all’originario art. 18 legge 300/1970. Oppure l’art.1, comma 2 che stabilisce che, in caso di conversione del rapporto di apprendistato o a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, dopo l’entrata in vigore del D.lgs 23/2015 si applica la disciplina di quest’ultimo, anche se il rapporto era sorto prima del 7 marzo 2015. Oppure, ancora, l’abolizione, ad opera dell’art.3, comma 1, D.lgs 81/2015 del divieto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, prima previsto dall’art.2103 Codice Civile, in presenza di “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore” (formulazione generica che dà spazio ad abusi del datore di lavoro). E si potrebbe continuare a lungo.

Peraltro la centralità della tutela del lavoro in tutti i suoi aspetti non può essere affidata solo a interventi della giurisprudenza di merito e di legittimità. Deve essere il legislatore, in un’ottica anche latamente di sinistra, a recepire gli indirizzi cui si è fatto cenno, e porre in essere l’abolizione di gran parte delle norme retrive introdotte dal jobs act con conseguente violazione, anche in termini civilistici, della tutela del contraente più debole sancita in via generale dall’ordinamento, e tradotta nel diritto del lavoro con il principio dal “favor lavoratoris”.

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