Perché i giovani non si iscrivono al sindacato? - di Fabrizio Denunzio

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva
 

 

Riflessioni generali a partire dai dati dell’inchiesta della Fondazione Di Vittorio.

Dell’inchiesta nazionale sulle condizioni e le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori, curata da Daniele Di Nunzio per la Fondazione Di Vittorio, il dato che ha maggiormente colpito l’immaginazione dei giornalisti economici è quello che vede non iscriversi al sindacato il 47,2% dei giovani al sotto dei 34 anni, a causa della mancata conoscenza delle sue attività.

Come tutti i dati, anche questo si è immediatamente prestato a essere letto e usato ai fini della lotta ideologica, non fosse altro perché, di un’inchiesta ricca, complessa e articolata, da “Il Sole 24 Ore” (Giorgio Pogliotti) a “Repubblica” (Valentina Conte), alcune delle principali testate giornalistiche italiane nient’affatto disinteressate a creare e mantenere un clima di consenso costante in favore del liberismo e di tutte le pruderie che da sempre la libera attività imprenditoriale prova nei confronti delle organizzazioni dei lavoratori, ne hanno voluto segnalare l’esistenza lanciando nei titoli dei loro articoli proprio quel dato.

Il fine di un’operazione di questo tipo non si fa fatica a trovarlo: si vuole certificare nel peggiore dei casi il fallimento del sindacato; nel migliore una sua grave carenza comunicativa, il che vuol dire, in tempi come i nostri nei quali non comunicare vuol dire non esistere, l’incapacità di creare partecipazione attorno a quello che dovrebbe essere il significato originario della propria organizzazione: la difesa dei diritti e della dignità di chi lavora.

Ora, io credo che l’esistenza di quel dato, invece di rappresentare l’ennesima occasione per voler discreditare le organizzazioni dei lavoratori evidenziandone la conclamata inutilità soprattutto tra le giovani generazioni, debba essere l’occasione per riflettere in termini più ampi sulla situazione di generale alienazione della nostra condizione umana nell’era neoliberista, di cui quel 47,2% di under 34 che non sanno di cosa si occupi un sindacato è solo uno dei tanti indicatori. Ce ne sarebbero almeno altri due con cui incrociarlo per constatare le dimensioni del fenomeno, almeno per quel che riguarda la sola condizione giovanile.

In primo luogo penso al tasso di dispersione scolastico calcolato dal Censis nel suo 56° Rapporto annuale sulla situazione sociale del nostro paese: il 12,7% di giovani tra i 18 e i 24 anni abbandona gli studi. In secondo luogo, penso agli “hikikomori”, quei giovani tra i 15 e i 19 anni che si ritirano da ogni forma di vita sociale in presenza e che, chiusi nelle stanze delle loro case, giocano ai videogame, dormono, leggono, guardano la tv o navigano nel web: come emerge dall’inchiesta svolta dal Gruppo Abele in collaborazione col Cnr, in Italia nel 2021 erano circa 44mila gli adolescenti in stato di ‘isolamento’ e 63mila in pericoloso procinto di diventarlo.

Quindi, prima di scandalizzarsi perché i giovani ignorano le attività del sindacato, bisognerebbe chiedersi cosa altro ignorino e perché le istituzioni educative (dalla famiglia alla scuola e all’università) non stimolino, soprattutto a fronte di una società violenta e competitiva, al desiderio di conoscenza e alla socializzazione, condizioni preliminari per formare una cittadinanza attiva e consapevole dei propri diritti, tra i quali, naturalmente, figurano quelli lavorativi.

Non che nel panorama giovanile manchino forme di attivismo, di militanza e di lotta politica: penso alla Rete degli studenti medi e superiori in prima linea contro l’antifascismo e l’alternanza scuola lavoro, al movimento Lgbtq+ per il riconoscimento dei diritti civili, ai “Fridays for Future” e a Ultima Generazione contro il cambiamento climatico. Il fronte della battaglia intellettuale però, in questo frangente, è tutto spostato sul problema specifico della mancata iscrizione al sindacato da parte delle giovani generazioni.

Che nella condizione di alienazione giovanile velocemente ricavabile dagli indicatori menzionati (ignoranza del sindacato, dispersione scolastica, hikikomori) ne vada inesorabilmente non tanto quella dei soli giovani, quanto piuttosto quella dell’intera condizione umana, è facilmente intuibile, non fosse altro perché quella giovanile è il risultato della generazione passata.

A differenza di quanto pensasse Theodor W. Adorno, non è l’alienazione dei padri a produrre l’asservimento dei figli, ma l’esatto contrario. L’aver abbandonato il terreno del conflitto sociale in ogni ambito della vita pubblica, a partire dai luoghi di lavoro, è una delle possibili cause dell’alienazione generalizzata in cui tutte le generazioni attualmente si ritrovano impaludate. Su questo punto, e sulle enormi responsabilità del sindacato, assieme a Mara D’Ercole, abbiamo cercato di fare chiarezza (Sinistra Sindacale 3/2021).

In che modo il sindacato dovrebbe intervenire in questa situazione, visto che il dato sulla mancata iscrizione dei giovani a causa di un deficit di ‘comunicazione’ sulle sue attività lo chiama direttamente in causa per metterlo sul banco degli accusati? Già mi è capitato di intervenire sulla formazione sindacale di base, quindi sul rapporto tra giovani e sindacato (Sinistra Sindacale 11/2021). La riflessione di allora però deve essere approfondita rispetto al dato di oggi.

Il giovane Marx dei “Manoscritti economico-filosofici del 1844” riteneva che il lavoro alienato fosse in stretto rapporto con lo sviluppo della storia umana, visto che nel corso dei secoli gli uomini avevano sempre dovuto vendere, alienare, attraverso un lavoro faticoso, una parte della propria umanità ad altri uomini, in cambio di un salario che a stento garantiva la riproduzione biologica della loro esistenza. Ora, affermare che il processo di alienazione è connaturato allo sviluppo storico dell’umanità vuol dire che esso coinvolge la totalità dell’essere umano, anche al di là del rapporto salariale. A mio parere vuol dire riportare l’alienazione umana su un terreno cognitivo originario, quello nel quale gli esseri umani eseguono regole di cui non comprendono il funzionamento, obbediscono a ordini senza conoscere il sistema che li produce. In breve, per dirla con l’antropologo Malinowski, si sta dentro un quadro senza vederlo dall’esterno.

Per avere forza disalienante, allora, l’incontro dei giovani col sindacato non dovrebbe avvenire esclusivamente sul terreno della legislazione lavoristica, ma su quello di una concezione dell’attività lavorativa i cui significati arrivino a toccare l’esistenza umana tutta, nel contesto di una società capitalistica. Un unico esempio: l’accoglienza.

Quelli tra gli scienziati sociali italiani che si occupano di ospitalità da un punto di vista tanto giuridico quanto socio-filosofico, uno fra tutti Tito Marci, sostengono che nella società globalizzata l’alienazione non è più quella sperimentata nell’epoca moderna, e che debba essere interpretata attraverso concetti come quelli di dislocazione e di estraneità universale, esperienze con cui tutti noi facciamo quotidianamente i conti vivendo in un mondo multietnico e a livelli di complessità crescenti, invitandoci in un qualche modo ad abbandonare i significati tradizionali che essa aveva quando Marx la definì.

Per quanto suggestivo sia questo invito, credo che, una volta accolto, si finirebbe con l’abbandonare non tanto un concetto caro alla tradizione marxista, quanto il legame tra alienazione e lavoro, quindi tra la condizione umana generale e l’attività lavorativa, sfere profondamente interrelate.

Agire formativamente su questo legame in funzione disalienante rispetto alla questione dell’accoglienza, vuol dire connettere la formazione di una coscienza di classe a un’etica dell’ospitalità che faccia percepire e sentire lo straniero, qualunque forma di estraneità esso incarni (dalla povertà alla sessualità alla religione alla nazionalità), come parte indispensabile alla elaborazione della propria soggettività. Un’alterità che incontriamo nel mondo ma che in realtà ci rimanda inesorabilmente a quell’altro-da-me che ci costituisce in quanto soggetti, nel momento in cui scopriamo che la nostra coscienza si fonda su ciò che non è nostro.

Per questa serie di riflessioni generali sul dato emerso dall’inchiesta della Fondazione Di Vittorio, parlare strumentalmente di fallimento del sindacato non vuol dire nulla, anzi è l’occasione ritrovata per mettere in discussione tutto.

©2024 Sinistra Sindacale Cgil. Tutti i diritti riservati. Realizzazione: mirko bozzato

Search